Modi di dire: scoperchiare il vaso di Pandora

Contenitore alimentare, supporto per piante ornamentali, oggetto sacro, costoso articolo di design: il vaso, in terracotta, bronzo, cristallo, vetro, legno o metalli preziosi accompagna la vita quotidiana dell’uomo sin dalla più remota antichità.

A Orsago, comune del trevigiano al confine con il Friuli-Venezia Giulia, ne sono stati rinvenuti esemplari risalenti addirittura alla Preistoria, miracolosamente conservati dalla torba dei palù, l’ambiente di acquitrini, risorgive e foreste che un tempo dominava questo territorio. Negli anni Settanta, dopo i contenitori preistorici a bocca quadrata e i vasi dell’età del Bronzo realizzati con la tecnica “del colombino”, le campagne orsaghesi hanno regalato agli archeologi un’altra sorpresa: una necropoli romana del I secolo a.C. nella quale le panciute olle in terracotta bruno rossastra contenenti le ceneri dei defunti, giacevano su un letto di ghiaia protette da mezze anfore segate, insieme a balsamari, bacche, frutti e altre offerte votive.  

Fra le civiltà che primeggiarono nell’arte della ceramica vi furono senza dubbio i Greci, i cui capolavori raggiunsero traguardi artistici straordinari. Fu attorno al VII secolo a.C. che sui vasi greci, dopo le decorazioni geometriche, fecero la loro comparsa immagini mitologiche: dèi, eroi ed esseri inquietanti protagonisti di racconti ancestrali e affascinanti come il mito di Pandora, personaggio reso celebre proprio da un vaso. 

Vaso François, VI secolo a.C.

Tutto ebbe inizio con il furto del fuoco da parte di Prometeo, il quale intendeva farne dono all’umanità. Zeus, infuriato per quel gesto empio, condannò Prometeo a un tremendo supplizio: un’aquila gli avrebbe divorato il fegato ogni giorno per rinnovargli il dolore e il ricordo del suo comportamento sacrilego. Non pago, il re degli dèi olimpi ordinò a Efesto, dio del fuoco e della metallurgia, di forgiare un automa dalle sembianze di splendida fanciulla, Pandora, alla quale affidò un vaso contenente tutti i mali del mondo. La giovane non seppe resistere alla curiosità e, nonostante il divieto di Zeus, scoperchiò l’orcio dal quale fuoruscirono immani sciagure prima sconosciute: crudeli malattie, il dolore, la follia, la vecchiaia, il vizio, la gelosia, il lutto.

Sulla scorta del mito, scoperchiare il vaso di Pandora ha assunto il significato di “portare alla luce circostanze o situazioni nascoste o non ben conosciute, sempre rovinose e dannose, anche illecite o criminali” (Dizionario Treccani). Chi scopre, in senso figurato, il mitologico orcio può trovarsi dinanzi a una realtà tanto drammatica quanto inattesa. Evocata in politica, nella cronaca nera, sportiva e in quella rosa, l’accidentale apertura del leggendario vaso provoca sbigottimento per la maniera fortunosa con la quale si svelano malaffare, intrighi, corruzione e tradimenti. Nel modo anglosassone, con una metafora forse meno dotta, ma altrettanto efficace, scoprire il vaso di Pandora equivale ad aprire a can of worms, una lattina di vermi.

Quel che è certo è che, una volta dischiusa la giara o la latta, non si torna più indietro. Ecco spiegata la riluttanza del pavido che, al cospetto del vaso, preferisce far finta di niente (altro modo di dire!) e “mettere la testa sotto la sabbia, come lo struzzo”.

Nel mito di Pandora, tuttavia, c’è una circostanza decisiva: la sprovveduta fanciulla, colei che cedette alla curiosità, per fortuna riuscì a chiudere l’anfora prima che fosse troppo tardi e la speranza, che giaceva sul fondo del recipiente, non si disperse. Da allora essa rappresenta l’ultimo appiglio per l’uomo in un mondo divenuto improvvisamente tetro e desolato. Un’illusione, secondo alcuni, una certezza secondo altri. Fra chi propende per quest’ultima ipotesi vi è  Jim Morrison (1943 – 1971), icona del rock e artista maledetto, che con disarmante sicurezza sentenziò: “Non c’è notte tanto lunga da non permettere al Sole di risorgere il giorno dopo”.

(Autore: Redazione di Qdpnews.it)
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