Perché le zecche non muoiono dai virus killer: una ricerca che può cambiare tutto

Immaginate la scena in cui una minuscola zecca striscia sulla vostra pelle, di fronte ai vostri occhi, un animale potenzialmente portatore di un virus così letale da uccidere fino a quattro persone su dieci che infetta. Eppure quella stessa zecca non mostra alcun segno di malattia: si nutre, si muove e si riproduce come se nulla fosse. Com’è possibile?

È un paradosso che ha tormentato gli scienziati per anni, un enigma biologico che sembrava sfidare ogni logica. Il virus della sindrome febbrile grave con trombocitopenia, scoperto in Cina nel 2009 e noto agli addetti ai lavori come SFTSV, è un killer spietato quando incontra l’organismo umano. Scatena febbri devastanti, provoca emorragie incontrollabili, manda in tilt gli organi vitali. Ma per le zecche che lo trasportano? È come se non esistesse.

Marine J. Petit ha dedicato la sua carriera a risolvere questo problema biologico. Insieme al suo team di ricerca, ha intrapreso un viaggio scientifico che potrebbe rivoluzionare il modo in cui combattiamo le malattie trasmesse da questi piccoli aracnidi. La posta in gioco è alta: con i cambiamenti climatici che spingono le zecche verso territori inesplorati, nuove popolazioni umane si trovano esposte a minacce mai incontrate prima. La temibile zecca asiatica dalle corna lunghe, vettore dell’SFTSV, ha già attraversato oceani e continenti, stabilendosi in Australia, Nuova Zelanda e lungo la costa orientale degli Stati Uniti.

Ma studiare le zecche non è come studiare qualsiasi altro organismo vivente. Questi piccoli sopravvissuti dell’evoluzione pongono una sfida scientifica unica: gli strumenti molecolari che funzionano perfettamente con topi, esseri umani o persino zanzare, si rivelano inutili quando si tratta di penetrare i segreti delle zecche. È come tentare di aprire una cassaforte moderna con chiavi antiche.

La soluzione è arrivata dall’analisi dei dati su larga scala. Petit e il suo team hanno sviluppato una strategia d’assalto digitale, catturando istantanee molecolari di cellule di zecca infette con una precisione mai vista prima. Hanno seguito simultaneamente l’attività di migliaia di geni e oltre 17.000 proteine, creando una mappa dettagliata di come questi organismi reagiscono all’invasione virale nel corso del tempo.

Quello che hanno scoperto ha ribaltato ogni aspettativa. Mentre le nostre cellule, di fronte a un virus, si trasformano in fortezze in stato d’assedio – mobilitando eserciti di difensori, innalzando barriere, lanciando contrattacchi disperati – le cellule delle zecche adottano un approccio radicalmente diverso. È come se, invece di combattere l’invasore, decidessero di negoziare con lui.

Le zecche possiedono infatti un sistema immunitario, ma funziona secondo regole proprie. Hanno le stesse vie di comunicazione cellulare che usiamo noi – i famosi circuiti Toll, IMD e JAK-STAT – progettati per riconoscere i pericoli e coordinare le difese. Eppure, quando l’SFTSV invade, questi sistemi rimangono stranamente silenziosi. Il virus sembra aver imparato a muoversi come un fantasma, evitando di suonare i campanelli d’allarme che dovrebbero svegliare le sentinelle immunitarie.

Invece di lanciare una guerra totale, le cellule delle zecche intraprendono una strategia di sopravvivenza completamente diversa. Modificano i loro sistemi di gestione dello stress, riorganizzano la produzione di RNA e proteine, riprogrammano i meccanismi che controllano la morte cellulare. L’RNA, quella molecola messaggera che trasporta le istruzioni genetiche come un corriere instancabile, diventa il campo di battaglia di una guerra silenziosa. Piuttosto che distruggere l’invasore, le cellule delle zecche imparano a tollerare la sua presenza, adattando i loro meccanismi interni per minimizzare i danni e continuare a funzionare.

Questa strategia ha una logica evolutiva profonda. Le zecche sono creature che vivono ai margini dell’esistenza, nutrendosi solo poche volte nell’arco della loro vita, sopravvivendo con riserve energetiche ridotte al minimo. Una risposta immunitaria su vasta scala sarebbe per loro come bruciare la casa per scaldare una stanza. Troppo costosa, troppo rischiosa. E considerando che questo virus probabilmente convive con le zecche da milioni di anni, entrambi hanno avuto tempo per raggiungere una sorta di accordo evolutivo: tu non mi uccidi, io non ti distruggo, e continuiamo a convivere.

Ma il vero colpo di genio della ricerca di Petit è stata l’identificazione di due protagonisti inaspettati di questa storia: le proteine UPF1 e DHX9. Questi guardiani molecolari antichi, presenti in ogni forma di vita complessa dal regno vegetale fino all’uomo, svolgono normalmente il ruolo di correttori di bozze cellulari. La loro missione quotidiana consiste nel controllare la qualità dell’RNA, assicurandosi che i messaggi genetici siano accurati e leggibili.

Quando il team di Petit le ha scoperte mentre interagivano direttamente con le proteine virali all’interno delle cellule infette, inizialmente sono rimasti perplessi. UPF1 e DHX9 non erano mai state associate alla difesa antivirale. Eppure, la loro posizione strategica le rendeva candidate perfette per riconoscere l’RNA virale, spesso caratterizzato da strutture insolite che le distinguono dal materiale genetico cellulare normale.

L’esperimento decisivo è arrivato quando i ricercatori hanno deciso di rimuovere questi guardiani molecolari dalle cellule delle zecche. Il risultato è stato lampante: senza UPF1 e DHX9, la crescita del virus è esplosa. La prova era sotto gli occhi di tutti: queste proteine stavano effettivamente combattendo il virus, ma lo facevano con metodi non convenzionali.

Questo ha portato alla scoperta di quella che Petit chiama immunità non canonica: invece di attaccare frontalmente come un esercito tradizionale, le zecche usano strategie da guerriglia urbana. Le loro proteine di controllo qualità dell’RNA funzionano come una rete di informatori che riconoscono l’RNA virale come “straniero” e attivano sistemi di controllo interni per limitarne la proliferazione. È una difesa sottile ma efficace, che permette alla zecca di rimanere sana senza sprecare energie preziose.

Le implicazioni di questa scoperta si estendono ben oltre il mondo delle zecche. Le proteine UPF1 e DHX9 esistono anche nelle nostre cellule, aprendo la possibilità di sviluppare nuove strategie terapeutiche che potenzino questi meccanismi naturali di controllo qualità. Immaginate farmaci che non combattono direttamente i virus, ma potenziano i nostri sistemi interni di monitoraggio, trasformando ogni cellula in un detector più efficace di materiale genetico estraneo.

Ma la ricerca apre anche scenari futuristici per il controllo delle malattie trasmesse dalle zecche. Si potrebbe intervenire direttamente sulle popolazioni selvatiche, potenziando le loro proteine antivirali per rendere le zecche meno efficienti come vettori. Oppure si potrebbero sviluppare trattamenti che colpiscano specificamente l’equilibrio evolutivo tra virus e zecca, spezzando la catena di trasmissione prima che raggiunga l’uomo.

Con gli approcci tradizionali che faticano a tenere il passo dell’espansione geografica delle zecche causata dal riscaldamento globale, questa ricerca offre una nuova speranza. Non si tratta più solo di eliminare le zecche o di sviluppare vaccini contro i singoli virus, ma di comprendere e sfruttare i meccanismi evolutivi che regolano queste complesse interazioni.

La lezione che emerge dal lavoro di Marine J. Petit è profonda: a volte, per vincere una guerra, bisogna prima capire perché alcuni non la combattono affatto. Nel caso delle zecche, la loro “resa” apparente di fronte ai virus killer potrebbe insegnarci nuove strategie per proteggere noi stessi, trasformando una vulnerabilità apparente in un’arma segreta contro le malattie emergenti.

(Autore: Paola Peresin)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
(Articolo e foto di proprietà di Dplay Srl)
#Qdpnews.it riproduzione riservata

Related Posts