Vittorio Veneto, fornaretto e campione del mondo: “La mia non è una storia, ma un romanzo popolare”

Campione della fatica, della gentilezza e dell’umiltà con quella erre arrotata che ispira simpatia. Chi non ricorda Renato Longo (nelle foto)?  Ancora adesso lo chiamano dall’estero, da tutta l’Italia, per invitarlo ad ogni evento, a premiarlo, perché in tutti ha lasciato un ricordo nostalgico del ciclismo d’antan, tanta fatica, pochi soldi, al punto che a fine carriera ha fatto l’operaio fino alla pensione alla Snia, da “Marinotti”.

Ha fatto il contadinello (licenziato in tronco a 14 anni con un calcio nel sedere per aver lasciato cadere a terra uno scivoloso pezzo di lardo di maiale), poi il fornaretto a Milano dal 1951, poi il campione del mondo di ciclocross, anzi il primo italiano campione del mondo di ciclocross. Professionista con l’Ignis fino al 1961, con l’Europhon e la Salvarani, per chiudere con la maglia della gloriosa Uc Vittorio Veneto, vincendo l’ultimo titolo italiano.

Merito anche del duro lavoro al panificio a Milano, davanti alla sede dell’Alfa Romeo dove venivano consegnati a mano quintali di pane portati in bicicletta sulle spalle, decine di viaggi ogni giorno con il sogno di diventare un campione: Renato Longo, 81 anni portati da sessantenne, ricorda con un sorriso amaro quegli anni: “La mia più che una storia di sport, anche per questi prologhi, è un romanzo popolare – racconta – Nel cortile interno del panificio Tano (Gaetano) Belloni, sapeva che avevo la passione delle bici e parcheggiava l’ammiraglia della Leo Chlorodont: era il direttore sportivo in quegli anni di Gastone Nencini, e io da adolescente ammiravo quella macchina e sognavo di correre. Mi dava anche i biglietti per il Vigorelli, con cento lire correvo un’ora, nel 1955 ho comprato la prima bici usata a rate, poi mi hanno tesserato da dilettante in ottobre e in quella stagione si faceva ciclocross, ed è partita da lì la mia avventura”.

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Quando ripensa al suo passato, di cui anche la sua casa trasuda tra trofei, riconoscimenti e libri, premi (anche da Aldo Moro la medaglia d’oro al Valor dello Sport) il primo flash che le viene cos’è?
“Le prime gare, la prima vittoria al mondiale. Siccome nel 1955 lavoravo al forno, il datore di lavoro mi lasciava libero la domenica alle 10, e io partivo con la valigetta del cambio (maglia e calzoncini) in spalla, e facevo il ‘riscaldamento’ pedalando verso i paesi lombardi vicini a Milano. Correvo e tornavo sempre in bici, 30, 40, 50 chilometri. Non avevo altre possibilità, altro che assistenza della società. A volte andavo in treno e caricavo la bici. Indimenticabile poi la prima vittoria nel cross ad Alte Ceccato, a gennaio 1956 che ha dato la svolta alla mia passione e il mondiale del 1959 a Ginevra, open, che ha spezzato 8 anni di egemonia francese. Con la soddisfazione di essere il primo italiano a vincere il mondiale di ciclocross da quando si correva, cioè dai primi anni del Novecento”.

Con la maglia di campione del mondo ha sposato Marisa, quanto è contata la sua presenza?
“Mi è sempre stata vicina, approfittavo delle corse nel trevigiano per trovarla e rimanere a Vittorio qualche giorno, poi ci siamo sposati. E continuavo a correre”.

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Senta, Longo, il suo palmares è assolutamente da record, da numero uno assoluto: 12 titoli italiani di ciclocross, uno di mezzofondo, 5 mondiali, 4 Trofei Martini a Parigi, 6 Trofei Garinei, 10 Gran Premi dell’Epifania a Solbiate Olona. 233 vittorie su 388 gare tra cross e strada a cui ha partecipato. Se avesse vissuto ora questo momento?
“Eh non c’è paragone ora rispetto ai miei tempi. Sinceramente? Sarei come gran parte dei campioni a Montecarlo: invece era un periodo in cui il ciclocross in Italia non era seguito, non c’era scuola, c’erano i campionati Open, dilettanti e professionisti insieme. Spesso i dilettanti erano più vecchi dei professionisti, e da professionisti nel cross non si facevano i soldi. Ho lasciato comunque il lavoro dopo il mondiale vinto, dovevo allenarmi duramente”.

Faticatore nel sacrificio e nel fango gentile e modesto davanti alla notorietà, com’è che il successo non lo ha cambiato?
“No assolutamente, non potevo cambiare. Se ora i corridori sono seguiti di tutto punto, io dovevo gestirmi in tutto anche se ero ai vertici della specialità. Sempre con i piedi a terra, ce lo ricordava il fango nel quale correvamo, eravamo davvero gli antesignani in questo sport”.

Uno sguardo al ciclocross di oggi, italiano, come lo vede?
“Nelle nostre zona, vedi i Fontana, e in Trentino ci sono corridori validi. A differenza di allora ci sono anche le categorie giovanili a correre nelle gare: possono imparare. In Francia e Belgio e Svizzera lo facevano già ai miei anni, qui molto più tardi. In quei paesi è molto più seguito, gli atleti hanno tutte le attenzioni degli sportivi, di conseguenza si spiega perché vincono spesso loro”.

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(Fonte: Fulvio Fioretti © Qdpnews.it).
(Foto: Qdpnews.it ® riproduzione riservata).
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