La storia e il dramma del professor Picot, il racconto della tragicità delle foibe e della fuga dall’Istria

Angelo Picot oggi ha ottant’anni (è nato il 16 luglio 1939) e vive con la sua famiglia a Conegliano. Laureato in Lettere a Padova, ha insegnato ed è stato Preside. Ama la storia, il pianoforte e leggere.

In una notte del dicembre 1946 la vita della sua famiglia è completamente cambiata. Il papà ha deciso di fuggire da Albona D’Istria, lasciando tutto: la casa, il negozio. Per Angelo e i suoi fratelli è stato lasciare il calore di una famiglia, di una casa, i parenti, gli amici, la scuola.

Nella loro storia la storia di tante famiglie e persone, istriani, fiumani e dalmati, costrette ad emigrare. Nel suo racconto l’esodo e la tragicità delle foibe. Il 10 febbraio è il Giorno del Ricordo. Per fare memoria, per attualizzare quelle vicende e tradurle in valori per la società di oggi. E dalle parole di Angelo Picot, l’invito, il suo appello a una lettura storica di quei fatti, che sia sempre più equilibrata.

Lei è figlio di Ezio e Leonide Macillis, esule da Albona d’Istria. Perché suo padre Ezio ha deciso di scappare?

Due son i motivi. Il primo è che eravamo nel 1946, a guerra finita, ma l’atmosfera in Istria era decisamente infuocata. C’era paura da parte degli italiani che gli slavi, che si erano impadroniti di quella terra, ci facessero qualcosa. Gli slavi significavano comunismo e il comunismo allora voleva dire: la proprietà non c’è più, la religione non c’è più. Il secondo motivo è che mio padre come tanti altri italiani non voleva sottostare e vivere in uno stato che non fosse l’Italia. C’era il nuovo stato, la Jugoslavia. E noi italiani non volevamo star là.

Siete fuggiti separatamente, in una notte di dicembre, suo padre con suo fratello e lei con sua madre e sua sorella…

C’era un allarme diffuso. Se andavamo via in tanti tutti assieme si temeva di avere maggiori probabilità di essere scoperti da parte di chi ci sorvegliava. Quindi siamo partiti con mezzi diversi. Mio padre e mio fratello hanno intrapreso il viaggio molto presto la mattina con un camion americano e sono passati per la via interna fino a Trieste. Invece mia madre, io e mia sorella siamo partiti un po’ più tardi con una macchina di un amico e siamo andati direttamente a Pola, perché a Pola c’erano già gli inglesi e gli americani e non gli slavi. Una volta giunti, siamo stati lì alcune ore e poi siamo saliti sulle navi che portavano gli italiani in Italia e, attraverso il mare, abbiamo raggiunto Trieste.

Siete fuggiti con più abiti addosso. Per quale ragione?

Non potevamo farci notare. L’accordo era che se ci avessero fermato, come di fatto ci hanno fermati al confine (tra l’Istria occupata dagli slavi e Pola occupata dagli americani), e ci avessero chiesto la ragione del nostro andare a Pola, si sarebbe detto che noi bambini stavamo male e quindi dovevamo andare da un medico. E’ come se, oggi, da Pieve di Soligo si andasse a Treviso perché a Treviso ci sono gli specialisti. Siamo andati via con due paia di mutande, tre paia di maglie, ma non valigie o borse, perché era una fuga.

Che sentimenti ha provato in quel momento e che sentimenti prova ora a ricordare?

Io ero un ragazzino di 7 anni, quindi non è che mi rendessi pienamente conto di quello che succedeva. Ho capito che era una cosa particolare, ma io non ho sofferto particolarmente in quel momento. Anzi, l’ho presa come una specie di piccola avventura: alzarsi la mattina presto, salire in macchina con mia madre, mia sorella e un’altra parente; anche il fatto di arrivare a Pola di salire su una nave, che non era una cosa che si facesse spesso. Quindi per me è stata una cosa anche nuova. Dopo, invece, me ne sono accorto quando sono diventato adulto e ricordavo queste cose. Sono attimi che restano ovviamente nel bambino anche se uno non si rende conto della gravità e della pericolosità del fatto.

Lei nelle foibe ha perso uno prozio e un cugino di vent’anni, degli amici, tutti eliminati dai partigiani di Tito. Perché ce l’avevano con voi?

Il grosso problema dell’Istria e della Dalmazia, ma più dell’Istria, è il fatto che era una terra di confine e quindi abitata da popolazioni italiane e da popolazioni non italiane: sloveni, croati e così via. Come a Trieste. Fin che si era sotto l’impero Austro-Ungarico, fino alla prima guerra mondiale, c’è stata per secoli, una convivenza normale. Non c’era particolare odio tra gli italiani e gli altri. Gli italiani pur essendo i meno numerosi erano quelli che dominavano o per cultura o per potere economico. E quindi tutte le classi dirigenti erano italiane. Questa superiorità è aumentata durante il periodo fascista tra la prima guerra mondiale e la seconda. Quando è successo il patatrac nel 1943, il mondo si è rovesciato.

Gli slavi hanno preso il predominio in tutti i campi e noi ci siamo trovati come loro prima. I documenti storici non hanno ancora chiarito questo fatto, non credo ci sia stato nessun documento scritto del governo slavo o di Tito in particolare per eliminare gli italiani o per allontanarli. Però le intenzioni erano quelle. Dopo c’è stato il fenomeno delle foibe, delle uccisioni, delle sparizioni e questa spinta a mandarci via, perché ormai consideravano la terra come loro. Non avevano comunque neanche loro l’interesse che noi italiani andassimo via tutti. Nel mio paese, per esempio, c’era una importante miniera. Gli slavi lavoravano in miniera, senza occuparsi della sua organizzazione. E avevano bisogno di noi italiani per la gestione. Da un lato volevano mandarci via e dall’altro dominare.

Come è stata la vostra esperienza una volta in Italia? Vi siete sempre sentiti accolti e ospitati?

Noi ci siamo ritrovati a Trieste con mio padre, siamo stati qualche tempo là perché vi abitava mio nonno materno da tanti anni. Dopo di che siamo andati via, perché lui aveva un appartamento piccolo. Ci siamo trasferiti prima a Udine, dove c’era una zia, e poi a Conegliano. Mio padre aveva in origine un negozio di abiti, stoffe e merceria e quindi aveva un rapporto con molti commercianti veneti. A Conegliano gli avevano offerto un lavoro. Prima è venuto lui, dopo alcuni mesi, nel marzo del 1947, lo abbiamo raggiunto.

Siamo stati accolti inizialmente bene, senza problemi. Però si deve pensare al periodo. Siamo nel 1947, Conegliano era a terra, c’era stata la guerra, c’era miseria, una povertà radicale. Noi abbiamo trovato casa quasi subito perché c’era un appartamento molto grande rimasto libero, vicino alla fontana dei cavalli in centro, dove abitava una famiglia che aveva trovato un appartamento da un’altra parte. Il proprietario ci guardava male, siamo entrati con i carabinieri. Non era una questione di cattiveria o astio. Era misera dappertutto. 



Cosa sono per lei “le radici” e la nostalgia?

Me ne sono accorto molto più tardi. In famiglia mi parlavano sempre del loro negozio, della loro casa, del loro dialetto. Io mi sono inserito bene a Conegliano. Non ha avuto problemi, né a scuola né con i compagni. Poi però ti accorgi che non sei a casa tua. Il dialetto, va bene veneto, ma diverso da quello istriano. Certe abitudini, certe tradizioni. Poi mi sono accorto e mi sono sentito legato, molto da adulto, anche di più. Adesso ho un rapporto stretto con il mio paese natio. Mi sento di quel paese là, pur essendo vissuto per tanti anni a Conegliano, qui nel Quartier del Piave. Ho tante patrie.

Giornata del ricordo 2020. Perché celebrarla?

Anche se sembra una cosa ormai ripetuta tante volte, ricordare quello che è stato è importante soprattutto per le nuove generazioni. Un po’ è come fa la senatrice Liliana Segre con gli ebrei. Qualcuno può dire: dimentichiamo. Ma c’è un po’ il pericolo che si ripetano certe tragedie. Credo importante questo ricordo, da fare però con molto equilibrio. Cosa che non si fa tante volte.

Sul suo profilo Facebook, lei ha scritto: “Perfino un banale incidente viene raccontato in mille modi diversi. Per raccontare esodo e foibe occorrono anni di studi, onestà intellettuale e più voci”. Che motivo l’ha spinta a scriverlo?

Ho scritto questo perché io ho letto e leggo molto, anche per il mestiere che ho fatto. Mi sono reso conto che tante manifestazioni che sono organizzate per il ricordo o per altri motivi, sono spesso poco equilibrate. C’è gente che si improvvisa storico. E’ vero che ognuno ha i propri ricordi e quindi la storia la vede sotto il proprio punto di vista e non da quello degli altri. L’estrema sinistra e l’estrema destra hanno due approcci diversi nel raccontare la storia di quegli anni. Bisogna avere più equilibrio. E questo manca tante volte, anche in alcuni di noi. Perché io mi rendo conto che il dolore provato da mio padre, da mia madre, da mio nonno è stato grande, ma bisogna tener conto anche dell’opinione degli altri.


Non puoi raccontare solo la tua, devi indagare, vedere poi trarre le conclusioni. Per questo per me sarebbe importante che certe manifestazioni fossero organizzate con tutti e due i punti di vista, sia chi nega certe cose sia chi le esalta troppo. In modo da raggiungere un certo equilibrio in modo che la gente senta le opinioni di tutti e poi possa trarre le sue conclusioni. Io voglio sapere qual è la verità, la verità mia quella dell’altro, poi ognuno farà i suoi ragionamenti.

Dal suo raccontare emergono la violenza, l’odio, l’ingiustizia, l’indifferenza, la rabbia, ma anche l’ospitalità, la solidarietà, il perdono, la riconciliazione e la pace. Vedendo la sua esperienza che senso dà a queste parole che si vivono, a questi sentimenti contrapposti?

Si possono capire la rabbia, anche reazioni inconsulte perché se uno viene ferito in modo duro o colpito nei propri interessi reagisce in modo duro. Io non sarei così però. Io direi cerchiamo di capire, ammettiamo le colpe nostre e degli altri, non neghiamole. Arrivare ad una convivenza possibile, come è stata per l’Istria. Venezia ci ha fatto vedere che è possibile, c’è il fondaco dei turchi, dei tedeschi, si convive con le regole.

Lei si è laureato in lettere all’Università di Padova, negli anni Settanta. Ha insegnato lettere ed ha terminato la sua carriera come preside nella scuola Media di Valdobbiadene negli anni Novanta. Oggi è padre e nonno. E’ andato a parlare nelle scuole e ha raccontato la sua esperienza in varie serate. E’ di pochi giorni fa, la notizia che ha suscitato molto clamore sui mezzi di comunicazione sociale, chiamando in causa diverse agenzie formative e istituzionali. Ragazzi che già nell’età delle medie (11-14 anni) assumono droga. Come educatore, come genitore e come nonno, che spiegazione si dà di questo fenomeno? Che consigli si sente di dare alle famiglie e al mondo della scuola?

Bisogna controllare, anche se i ragazzi non vogliono essere controllati. Noi alle Medie a Valdobbiadene avevamo il problema del fumo delle sigarette. Mi avevano riferito che fumavano all’esterno della scuola, al mattino, alle otto prima di entrare. Io sono andato a vedere, era giusto intervenire anche se il fenomeno si verificava al di fuori dell’orario scolastico. Sono intervenuto, ho controllato e ho dato delle punizioni. Non è facile. Io controllerei tante cose prima dei ragazzi. Controllerei gli spacciatori, i venditori. Cercare di combattere il fenomeno comprendendo le debolezze dei ragazzi perché i ragazzi sono i meno colpevoli. Rendendo responsabili anche loro.

Restiamo ai social. I ragazzi e i pre adolescenti ne fanno un ampio uso. E talvolta assumono comportamenti pesanti, da bulli anche e non solo via web. Come fronteggiare questi eccessi?

I bulli sono sempre esistiti. Si tratta di vedere fino a che punto arriva il bullismo e poi intervenire anche là. Sempre a Valdobbiadene una volta un ragazzino era andato a casa del compagno che gli aveva fatto un torto, con l’intenzione di vendicarsi. Aveva ingiunto alla madre di mandar fuori il ragazzino perché voleva dargliele. Quando ho saputo questo fatto ho sospeso questo ragazzino anche se il fatto era successo fuori dalla scuola. Bisogna intervenire su certe cose e dare l’esempio noi adulti.

Lei è esponente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia. Quali sono le attività che l’associazione e lei svolgete?

Ci siamo divisi in vari gruppi e quindi ci sono varie associazioni, la più importante è questa. Si fanno dei giornali, si fanno incontri tra profughi. Ormai gli incontri sono un po’ ristretti. Basti pensare che io nel 1946 avevo 7 anni e ora ne ho 80.

Ci sono varie diramazioni in tutta Italia. A Trieste, nel porto vecchio, c’è il Magazzino 18, molto grande, nel quale la maggior parte dei profughi d’Istria, di Fiume e di Dalmazia hanno lasciato i mobili, le pentole, i quaderni di scuola, le foto, eccetera. Hanno lasciato là la loro roba perché poi sono partiti per fare gli emigranti in America, in Australia, in Argentina. Una cosa che non abbiamo potuto fare noi. Il Magazzino 18 racconta oggi quanto è capitato allora a tante famiglie. Anche con il contributo della nostra associazione, il comune di Conegliano, per fare un esempio, organizza una visita in corriera per gli studenti delle scuole superiori, portandoli a vedere le foibe o i monumenti, perché conoscano e ricordino quanto ci è accaduto.


(Fonte: Loris Robassa © Qdpnews.it).
(Foto e video: Qdpnews.it © Riproduzione riservata). 
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