“Perché mi segui? Perché pensi che sia di tua proprietà? Perché mi picchi? Perché proprio a me? Perché? Questo lo chiami amore?”.
E’ iniziata con una cascata di domande la serata di sensibilizzazione sulla violenza contro le donne organizzata dal gruppo di progetto “Attiviamo la Solidarietà” del Liceo Marconi di Conegliano, formato da 40 studenti con il coordinamento della professoressa Ornella Maset.
L’evento si è tenuto giovedì sera 23 novembre all’auditorium “Dina Orsi” di Parè e ha visto la partecipazione dell’avvocato e assessore alle pari opportunità del Comune di Chioggia, Elena Zennaro, e l’associazione teatrale amatoriale “Nugae”.
La serata, come sottolinea il dirigente scolastico Stefano Da Ros, è solo una delle varie iniziative contro la violenza sulle donne che il gruppo “Attiviamo la Solidarietà” ha promosso, tra cui la creazione di una stanza per tutte le vittime di violenza all’interno del Pronto soccorso dell’Ospedale, resa possibile grazie alla collaborazione ormai consolidata della Fondazione di Comunità Sinistra Piave, in sinergia con l’Ulss 2 e l’ampliamento del progetto “Alice incontra Pollicino” che permette percorsi educativi di crescita e di dialogo nelle scuole.
Dopo aver fatto eco ai “perché” che scombussolano gli animi di tutti ogni volta che una donna viene molestata, stuprata, uccisa, gli studenti del progetto, vestiti di nero con appuntati al petto dei nastri rossi, sono saliti sul palco e hanno recitato la poesia dell’attivista peruviana Cristina Torres Cacères diventata virale dopo la morte di Giulia Cecchettin: “Se domani non torno, brucia tutto”.
Ed è proprio a Giulia che si è scelto di dedicare la serata, giovane vita spezzata dall’”ennesimo atto di violenza, di femminicidio”, come lo definisce la professoressa Maset, che prosegue: “Noi tutti vorremmo fosse l’ultimo e proprio a partire da questa consapevolezza vogliamo arrivare all’eliminazione di questa piaga sociale. Ci siamo chiesti, come scuola, ‘come possiamo tutelare le donne?’ Aiutando i ragazzi in un processo di consapevolezza e di maturazione del rispetto dell’altro” auspicando a una “sinergia di collaborazione con la famiglia, che però da sola non può farcela”.
Nella prima parte della serata è intervenuto l’avvocato Zennaro in veste di ambassador del progetto “Città delle donne”, fondato a Matera nel 2019 dagli Stati Generali delle donne, “un movimento focalizzato sull’empowerment femminile, oltre che detentore del brevetto della ‘panchina rossa’”, spiega Zennaro, “Nel tempo ha fatto molta strada, c’è quasi in ogni città e da simbolo di sangue e violenza è diventato anche un luogo per fermarsi, parlare, riflettere, condividere una storia, non solo di violenza, ma anche di rinascita”.
“Città delle Donne”, il cui motto è “Il futuro è di chi lo fa”, si propone come una rete nazionale che mira a coinvolge le grandi città, ma anche e soprattutto i piccoli paesi e si fa portatrice di un Manifesto articolato in 22 punti e che propone una concreta progettualità per ridisegnare la città con lo sguardo delle donne. Viene fondata a Matera proprio l’anno in cui questa veniva designata Capitale Europea della Cultura. Coincidenza? “No, perché la violenza di genere è un problema di cultura”.
Molto del lavoro di cui si occupa “Città delle donne” riguarda la disoccupazione femminile: “Riteniamo fondamentale l’indipendenza economica, l’autonomia e l’autostima – lo scandisce bene – che le donne devono avere, un’autostima che parte molto spesso proprio da un rapporto reciproco con l’altro sesso”. Le modalità con cui il Comune di Chioggia ha scelto di attuare questi princìpi sono varie, a partire da un corso di educazione finanziaria aperto alla cittadinanza “perché molto spesso mancano le conoscenze di base”, oppure dal riconoscimento del lavoro che le donne svolgono nel settore ittico all’interno della progettualità “Donne nella pesca”.
Nella seconda parte della serata la compagnia “Nugae” ha presentato il reading teatrale “I volti della violenza”.
Sul palco, una donna si muove nervosamente vicino a una valigia: è in procinto di andarsene dalla casa del marito violento, quello che “mette in condivisione tutto, tranne le botte”. E’ combattuta, e a trasferire sulla scena il dissidio interiore che la tormenta ci pensano, fisse dietro i rispettivi leggii, due donne, i suoi due alter ego. “Resta!” “Scappa!” “No!” “E’ ora!”, si scontrano in un agone la “crocerossina” in “delirio di onnipotenza” e la donna emancipata che rivendica la propria libertà. Nel mentre risuonano gli echi della voce di un “lui” indefinito che non compare mai in scena, ripete “sempre le solite frasi”, il “ti amo” è ormai una cantilena iterante, ma il nome di lei, lui, non lo dice mai. “E’ importante che ti chiami per nome”, concluderà la donna protagonista, prima di voltare le spalle al passato pronta ad intraprendere una nuova vita.
Lo sketch successivo ironizza sui luoghi comuni di cui spesso sono vittime le donne. Una donna nervosa? Ha il ciclo. Una donna magra? E’ stressata. Se è gentile? Non ha polso. Se è bella? Che si camuffi un po’. Se è intelligente? Deve volare basso. E se parla? Che parli meno. E se è visibile? Basta, deve farsi piccola!
Dopo il racconto della storia di Ipazia, scienziata e filosofa greca trucidata e lapidata dai cristiani perché personaggio scomodo e “il branco sbrana chi osa ribellarsi al suo pensiero”, lo spettacolo è proseguito con la messa in scena di un estratto dal processo per stupro tratto da fatti realmente accaduti del luglio 1987. C’è tutto, la maliziosità delle domande dei giudici sul modo di vestire, l’avvilimento della vittima nel rispondere con dovizia di particolari al “che cosa aveva indosso?” quando ben altri sono i dettagli che contano. “Come se fosse possibile mettere fine agli stupri solo cambiandosi i vestiti”, sussurra il personaggio vittima di violenza. Poi le luci si spengono, la scena è rovesciata. La parte lesa stavolta è l’uomo benestante che è stato aggredito e derubato. Le domande che gli vengono rivolte sono provocatrici, allusive, poco pertinenti. Insinuano che abbia ostentato la ricchezza, e per giunta proprio in quel quartiere, proprio con quella compagnia. Insomma, se l’è cercata.
In ultimo è stato riproposto il monologo “Sono solo parole”, scritto da Stefano Bartezzaghi e declamato ai David di Donatello 2018 da Paola Cortellesi, che analizza la discriminazione di genere da un punto di vista linguistico. Una carrellata di espressioni che, se al maschile presentano il loro legittimo significato, una volta declinate al femminile assumono un senso del tutto diverso, diventano una chiara allusione alla prostituzione. Un gatto morto? Un felino deceduto. Una gatta morta? Una mignotta. E così via. Ma allora sono davvero solo parole?
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