Visse 25 giorni in fondo a un lago, ora Silvana Polese cerca i compagni dell’Operazione Atlantide

Silvana Polese mostra la foto dei 12 partecipanti all’operazione Atlantide

Il 1969 viene ricordato da tutti come l’anno in cui il primo uomo sbarcò sulla Luna, ma in pochi sanno che nell’estate di quello stesso anno, nel lago di Cavazzo, in Friuli-Venezia Giulia avvenne un altro avvenimento forse ancora più unico. 

Undici uomini e una ragazza, all’epoca 17enne, Silvana Polese vissero per 25 giorni nel fondo del lago. Oggi Silvana di anni ne ha 71 e da cinquanta vive a Ponte della Priula

Il suo sogno è quello di riuscire a rintracciare gli altri sub che parteciparono all’operazione Atlantide, nata con lo scopo di vedere come avrebbero reagito le persone nel vivere isolate dal resto del mondo, trascorrendo giorno e notte all’interno di “case” ancorate a 25 metri di profonditànelle gelide acque del lago friulano. A capo dell’operazione lo speleologo e presidente del Centro Italiano Soccorso Grotte Luciano Mecarozzi, morto nel 2020 a causa del Covid. 

Per noi oggi andare al mare o fare una nuotata in piscina è una cosa abbastanza comune, ma all’epoca, immergersi era un’operazione che solo in pochi sapevano fare. Entrare in acqua era un vero pericolo, una cosa non alla portata di tutti, figuriamoci scendere a 25 metri di profondità.  

Ma come si è trovata all’interno di questa spedizione, per lo più a soli 17 anni?

Non è che ho scelto di farci parte. Forse era già nel mio Dna perché l’acqua è sempre stato il mio habitat. Mio papà nuotava molto bene e fin da piccoli ci portava nel fiume Livenza a fare il bagno. Anche quando era molto caldo non si andava al mare perché un tempo non era come adesso, si nuotava nel fiume. Quando sono cresciuta ho iniziato a far parte di una compagnia dove c’erano ragazzi della zona di Sacile e di Fontanafredda. Loro facevano speleologia, per me inizialmente era una cosa strana, ma poi ci siamo iscritti a un’associazione sportiva. 

Ma poi dalla speleologia siete passati alle immersioni. Come avete fatto?

Siamo andati alla sede di questa associazione e ci hanno spiegato tutto, c’era anche mio fratello con me e ci siamo iscritti. Con loro, ci trovavamo ogni settimana per fare delle riunioni e poi il fine settimana andavamo all’interno delle grotte ma dopo un anno, una sera durante una riunione ho visto una porta della sede leggermente aperta e così ho curiosato all’interno. 

i dodici partecipanti all’operazione atlantide 

Cosa c’era all’interno?

Ho visto delle cose strane appese. All’inizio ho preso paura ma poi ho visto anche delle bombole e così ho capito. In quel momento non ho detto nulla ma la settimana successiva ho chiesto se venissero fatte anche delle immersioni all’interno delle grotte. I responsabili mi risposero di si e aggiunsero che si erano immersi anche in altre zone. Ho pensato: ‘mamma mia qui siamo entrati in qualcosa di più grande di noi’, ma da li ho iniziato ad immergermi. 

Ma lei si ricorda il momento in cui le hanno chiesto di far parte dell’Operazione Atlantide?

Non me lo hanno chiesto subito, prima dovevamo imparare ad immergerci. Partivamo alle quattro di notte da Sacile e andavamo al lago di Cavazzo. Le prime immersioni le facevamo di notte l’acqua era gelida anche d’estate. Ma lo si faceva come passatempo e in tranquillità, all’interno del gruppo c’erano persone adulte ma anche qualche giovane, io all’epoca avevo 17 anni. 

E come vi allenavate?

Facevamo molte immersioni. Ricordo che il fondo del lago era pieno di bombe in quanto durante la Seconda guerra mondiale alcuni eserciti in fuga gettarono le loro munizioni. Noi le identificavamo e poi ogni mese arrivavano gli artificieri e le rimuovevano.

Quando vi hanno parlato della spedizione?

Quando Mecarozzi e le altre persone capirono che il nostro livello era alto, dopo moltissime immersioni, ci dissero di avere tra le mani un grosso progetto e che per loro era molto valido. 

E così vi misero al corrente? 

Ci mostrarono grafici, disegni e schemi. Ci ha spiegato dei tre contenitori ancorati a 25 metri di profondità, e poi del quarto che veniva definito “madre” dicendoci che in ognuno di questi avrebbero vissuto in quattro per un totale di 12 persone. In superficie ci sarebbero stati i coordinatori che, grazie a delle telecamere, ci avrebbero controllato e monitorato costantemente. Io sono rimasta a bocca aperta, credevo fosse fantascienza. Ci siamo seduti a tavola e ci hanno spiegato tutti i dettagli dell’operazione. Avremo vissuto, come se nulla fosse, nelle acque di un lago. 

E come hanno fatto a scegliere i dodici “abitanti del lago”?

Hanno fatto una prima scrematura. Io non c’ero, forse perché ero minorenne, ma uno delle persone scelte rifiutò e io pensai “questa è la mia occasione” e così alzai la mano e mi offrii. La questione si chiuse li. Alla riunione successiva Mecarozzi mi disse: ‘sei ancora della stessa idea?’ Io risposi “altrimenti non sarei ancora qui, passerei il mio tempo al Piper a ballare se non fossi convinta”, entrai così nella squadra. 

E poi cosa successe?

Iniziammo a lavorare. Arrivarono i contenitori sopra a dei camion immensi e toccò a noi dipingerli e metterci l’antiruggine. Mi ricordo che tutti erano incuriositi dal passaggio di questi camion per i paesini. I contenitori vennero messi in acqua e ancorati a 25 metri d’altezza. Abbiamo dovuto fare tutto in fretta perché l’estate stava finendo e in inverno l’acqua sarebbe stata troppo fredda. Finalmente arrivò il giorno stabilito e ci immergemmo. Il mio contenitore si chiamava “Come Topo” il nome erano le prime due lettere di ogni cognome dei quattro abitanti. 

Come vivevate sott’acqua?

All’interno dei contenitori, grazie a dei tubi, arrivava l’aria per respirare. Noi eravamo vestiti normalmente, ma sempre con il costume sotto e in perenne stato d’allerta. Eravamo pur sempre a 25 metri di profondità. Io ricordo che, sopra al costume, avevo un maglione lungo e un paio di calze. Possiamo dire che questo è stato il primo Grande Fratello della storia: ci controllavano con delle telecamere tutto il giorno e non potevamo mai spegnere la luce, neanche di notte. Avevamo un telefono con il quale ci chiamavano per darci qualche notizia ogni tanto, noi potevamo usarlo solo in caso di emergenza. 

Come passavate il tempo?

Parlavamo molto tra di noi, di qualsiasi argomento. Poi potevamo uscire dal nostro contenitore e raggiungere gli altri ma mai salire in superficie. Alcuni continuavano a cercare le bombe sul fondale ma io durante l’operazione non lo ho mai fatto. 

E per mangiare? 

Ci mandavano giù dei contenitori due volte al giorno con all’interno i pasti. Dormivamo in delle brande che di giorno fissavamo al muro per avere più spazio per muoverci. Abbiamo trascorso così 25 giorni, giorno e notte a 25 metri di profondità nelle acque del lago di Cavazzo.

Ha più visto i suoi compagni?

Con il passare degli anni non ci siamo più visti, so che qualcuno è anche morto. Io mi sono trasferita qui a Ponte della Priula e ho iniziato a lavorare. Vorrei però rincontrarli, sarebbe una cosa a cui terrei molto. Mia figlia Nicoletta sta facendo delle ricerche per cercare di rivederli, io ero la più piccola e l’unica ragazza a partecipare a questa operazione Atlantide.

(Foto: Qdpnews.it ©️ riproduzione riservata).
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