Quando i veneziani prendevano il toro per le corna

La lapide oggi collocata sulle Fondamenta dei Cereri

Una lapide con la data del 16 febbraio 1706 intima che in questa corte siano prohibite le caccie de torri”. Non siamo né a Siviglia e né a Madrid, ma nel cuore di Venezia e la corte a cui ci si riferisce è quella di San Rocco.

I veneziani, come gran parte dei popoli mediterranei, subirono il fascino esercitato dalla forza e dalla bellicosità dei tori. Protagonisti di arcaici riti pagani e successivamente di cruenti spettacoli popolari, i tori della Serenissima subirono più o meno la stessa sorte di quelli ritratti nei mosaici, nelle statuette e nelle pitture della Grecia classica. Le esibizioni erano sostanzialmente due, la taurocapsia e la tauromachia: nella prima l’atleta afferrava le corna della bestia e, dando prova di coraggio e abilità, la scavalcava con un balzo; la seconda era un combattimento fra uomini e animali, simile alla moderna corrida spagnola.

Come ricorda Andrea Gaddini, autore di dettagliati studi sull’argomento, nell’Italia medievale gli spettacoli con i tori erano molto popolari: se ne organizzavano a Roma, a Napoli, a Siena, nelle Marche e in Umbria. A Venezia la tradizione risale ufficialmente al 1162, anno in cui il patriarca di Aquileia Ulrico,colpevole di aver attaccato Grado, fu catturato dai veneziani che pretesero come riscatto la donazione annuale di dodici pani (i nobili alleati di Ulrico), dodici maiali (i chierici) e un toro (il patriarca). Da allora, per circa quattro secoli, a San Marco il Giovedì grasso fu solennizzato con un macabro rituale: gli animali, condotti sulla pubblica piazza venivano macellati e il toro decapitato. Una tradizione sanguinosa dalla quale deriva l’espressione “tagliare la testa al toro”, sinonimo di decisione radicale e definitiva. Con gli anni il tradizionale sacrificio degli animali aquileiesi si trasformò in qualcosa di ancora più eccitante, se così si può definire la lotta fra tori e cani, organizzata per commemorare anniversari pubblici, divertire dignitari stranieri o allietare sontuosi ricevimenti nuziali.

I tori, più spesso buoi o vacche, nel numero variabile di dodici o ventiquattro (ma si giunse a sacrificarne anche più di cento) si confrontavano con cani molossi, addestrati nei macelli a morsicare loro le orecchie. I bovini, irritati dai cani e spaventati dallo scoppio di petardi, avevano le corna legate ed erano “manovrati” da una coppia di tiradori di sesso maschile o femminile, generalmente gondolieri, bottegai o barcaioli. I nobili che non disdegnavano questo ruolo, per non essere riconosciuti, si mascheravano da Pantalone, Brighella o Arlecchino. Gli organizzatori, i caporioni o cortesani, erano solitamente beccai (macellai) noti per la prestanza fisica, i modi spicci e, come chiosa lo storico E. A. Cicogna, con “col zecchino sempre in saccoccia”. Rissosi e spregiudicati, erano riconoscibili per le braghe corte, il tricorno e il tabarro scarlatto.

Per allestire l’esibizione servivano due autorizzazioni: quella del parroco a garanzia che la data prescelta non fosse in conflitto con le ricorrenze religiose e quella del Consiglio dei Dieci, responsabile della sicurezza pubblica. È legittimo ritenere che qualche generosa offerta di denaro aiutasse a oliare i lenti meccanismi della burocrazia.  A ridosso della manifestazione, annunciata da festoni variopinti decorati con spirali metalliche e catenelle dorate, i marangoni (falegnami) montavano le tribune e gli steccati nei campi prescelti fra i quali San Giacomo di Rialto, San Polo e San Geremia. Nell’aria resa effervescente dall’attesa si diffondevano i profumi di frìtole, castagne e ciambelle e le risa dei più piccoli, accalcati nei teatri dei burattini. I tori, a coppie, facevano il loro ingresso nella piazza attorno alle dieci di sera e l’esibizione durava un paio d’ore fra grida d’incitamento, di approvazione e di scherno. Se i molossi non mollavano la presa entravano in scena i cavacani, incaricati di liberare i bovini e scatenare altri attacchi. Uno spettacolo truce, quello delle cacce taurine, che galvanizzava le folle e non lasciò indifferenti fior fiore di intellettuali: il Canaletto e Heintz le raffigurarono nelle loro tele, Torquato Tasso pare ne abbia tratto ispirazione per alcuni versi della Gerusalemme Liberata.

Una variante delle cacce tradizionali era quella con i “tori molai”, cioè mollati, liberati. Nelle corti più ampie l’animale infuriato caricava due beccai che alternavano i tentativi di afferrare le corna del bovino con precipitose fughe al riparo di pozzi e botti piene d’acqua. A trarre beneficio dallo scontato epilogo della sfida erano in parecchi, carcerati compresi, ai quali quel giorno era concessa un po’ di carne bollita e del brodo.  

La graduale deriva verso scenari sempre più violenti, l’afflusso di masse di balordi e la dilagante immoralità che accompagnava le cacce diedero sempre più voce a quelli che giudicavano questo tipo di spettacoli il retaggio di un passato barbarico, indegno per una città colta e civile come Venezia. Se a ciò si aggiunge la pericolosità dei giochi che ogni volta mietevano alcune vittime si comprendono le ragioni dei ricorrenti divieti imposti dalle autorità, ivi comprese quelle religiose che giunsero a negare la sepoltura in terra consacrata dei morti nelle cacce: persone travolte dalla calca, incornate dai tori o sepolte dal crollo di impalcature posticce sotto le quali ci si rifugiava per non pagare l’ingresso; nel 1687, in Santa Maria Formosa, per il cedimento di un’altana perirono due donne e un prete si salvò miracolosamente soltanto perché riuscì ad aggrapparsi a una grondaia.  

Bisognerà attendere i primi dell’Ottocento affinché le cacce, che nel frattempo avevano visto gli orsi e i torelli affiancarsi ai tori, siano messe definitivamente al bando. Se il governo e la Chiesa della Serenissima Repubblica, per ragioni d’opportunità, ebbero un atteggiamento altalenante e ambiguo, furono gli austriaci a “prendere il toro per le corna” facendo calare, una volta per tutte, il sipario su uno spettacolo crudele, disumano e che nessuno rimpiange.

(Foto: Wikipedia).
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