Lasci la chat? Ti licenzio!

È recente la notizia di un lavoratore spagnolo, addetto ai servizi mensa presso l’ospedale di Cadice, che ha subito il licenziamento per aver abbandonato la chat di Whatsapp con cui il datore di lavoro e i dirigenti sanitari condividevano informazioni in merito ai turni e all’organizzazione del lavoro.

Secondo la testimonianza del lavoratore, la chat non veniva utilizzata solo a fini organizzativi, ma di fatto celava controlli a distanza da parte del datore di lavoro: la richiesta quotidiana di foto e video del lavoro svolto, a detta del lavoratore e del sindacato che lo rappresenta, aveva un chiaro scopo di monitorare con continuità la progressione del lavoro.

Il lavoratore, contrariato da questa modalità e stanco di ricevere costantemente messaggi sul numero di telefono personale(l’azienda non aveva fornito infatti telefoni aziendali), decide di abbandonare il gruppo WhatsApp.

A questo punto l’azienda risponde intimando al lavoratore di tornare nel gruppo ma, a fronte del suo rifiuto, procede con il licenziamento, senza pertanto forzare il reingresso del lavoratore nella chat aziendale; inoltre, si rileva che il datore di lavoro non ha nemmeno legato la motivazione della cessazione a tale accaduto:la motivazione ufficiale infatti risulta collegata alla “brutta situazione economica e della necessità di ammortizzare il costo del lavoro”.

Al di là dei contenuti formali, tuttavia, secondo il lavoratore e il sindacato, che hanno impugnato il licenziamento, tale decisione sarebbe collegata alla volontà di “punire” il lavoratore per la sua presa di posizione.

In attesa della sentenza del Giudice di merito, è quantomai attuale porre in essere una riflessione su una prassi ormai consolidata e che consiste in una comunicazione sempre più pressante dei datori di lavoro (o dirigenti) nei confronti dei lavoratori, ben oltre l’orario di lavoro (incidendo negativamente sul diritto alla disconnessione dei lavoratori) e ben oltre le richieste ammissibili per legge.

Questo specifico caso, infatti, presenta una problematica rilevante in materia di trattamento del dato ai fini privacy: il datore di lavoro può utilizzare il numero privato del dipendente in una chat aziendale, condividendo il numero con altri soggetti? La risposta, ovviamente, è no. 

Il consenso non è richiesto ai sensi e per gli effetti dell’art. 6 del Regolamento Europeo 2016/679 quando i dati personali sono raccolti per adempiere a obbligo di legge o per l’esecuzione di obblighi derivanti da un contratto in essere tra le parti. Un rifiuto alla cessione del dato, quindi, comporterebbe obbligatoriamente la cessazione di ogni qualsivoglia rapporto non consentendo il trattamento dei dati (ad esempio in caso di assunzione, il consenso al trattamento dei dati personali è implicito).

È pacifico, tuttavia, che il numero di cellulare non sia un dato obbligatorio per il buon esito del contratto e questo implica che solo un espresso consenso del lavoratore dia la possibilità al datore di lavoro (titolare del trattamento del dato) di utilizzare il numero (solo ed esclusivamente per scopi preventivamente palesati dal titolare del trattamento stesso).

Nonostante sia noto che la normativa in materia di licenziamento sia molto più possibilista in Spagna che non in Italia, il caso in discussione lega i 2 Paesi per il fattore comune della privacy: la normativa, infatti, recepita con diverse tempistiche dai vari Stati membri, ha modalità applicative comuni a tutti i Paesi e, pertanto, la futura sentenza a cui assisteremo (o il prossimo intervento del Garante spagnolo, quanto mai opportuno) avrà sicuramente forte eco anche nel nostro contesto lavorativo.

(Foto: archivio Qdpnews.it).
Autore: Barbara Garbelli – Sistema Ratio Centro Studi Castelli

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