Licenziato chi deride il datore sui social dopo la reintegra

La Cassazione conferma: il lavoratore reintegrato che diffama l’azienda su Facebook è passibile di licenziamento per giusta causa.

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza 17.05.2024, n. 13764, ha stabilito che il licenziamento per giusta causa è legittimo quando un lavoratore, dopo essere stato reintegrato a seguito di un primo licenziamento dichiarato illegittimo, derida pubblicamente il datore di lavoro sui social media.

Licenziamento legittimo per condotta diffamatoria sui social media – La controversia in esame verte sul licenziamento di un dipendente, avvenuto il 21.11.2014, da parte di una Srl. Inizialmente, il provvedimento era stato contestato dal lavoratore e dichiarato illegittimo, con conseguente reintegro dello stesso nell’organico aziendale.

Tuttavia, in seguito a tale reintegro, il dipendente ha assunto comportamenti lesivi dell’immagine e della reputazione della società datrice di lavoro, pubblicando sulla propria pagina Facebook contenuti multimediali diffamatori.

La condotta del lavoratore, esorbitante rispetto ai confini del legittimo esercizio del diritto di critica, ha indotto la società a procedere con un secondo licenziamento.

Tale decisione trova fondamento nella violazione degli obblighi di fedeltà e correttezza che devono improntare il rapporto di lavoro, nonché nella lesione del vincolo fiduciario che lega il dipendente al proprio datore di lavoro.

In un contesto in cui i social media sono diventati parte integrante della vita quotidiana e professionale, il caso in esame solleva interrogativi rilevanti circa i limiti entro cui un lavoratore può esprimere opinioni e critiche nei confronti dell’azienda per cui opera.

Se da un lato il diritto di manifestare il proprio pensiero è tutelato costituzionalmente, dall’altro occorre contemperare tale libertà con il rispetto della dignità e dell’’immagine del datore di lavoro.

Percorso giudiziario – In primo grado, il Tribunale aveva riconosciuto la legittimità del secondo licenziamento intimato dalla società datrice di lavoro, ravvisando nella condotta del dipendente una giusta causa di recesso.

La Corte d’Appello di Bari, adita in sede di reclamo, ha confermato la decisione del giudice di prime cure con sentenza del 30.12.2020, rigettando le doglianze del lavoratore e avallando la validità del provvedimento espulsivo.

Non persuaso dall’esito del giudizio di secondo grado, il dipendente ha proposto ricorso per Cassazione, sostenendo la violazione degli artt. 2119 e 2106 del Codice Civile, oltre a un vizio di motivazione.

Decisione della Cassazione – La Corte di Cassazione ha posto fine alla controversia, confermando la decisione della Corte d’Appello e respingendo il ricorso del lavoratore.

La Suprema Corte ha enunciato 3 principi fondamentali che meritano di essere analizzati nel dettaglio.

In primo luogo, la Cassazione ha ribadito che, nel momento in cui un licenziamento viene dichiarato illegittimo, il rapporto di lavoro si ricostituisce automaticamente, senza che sia necessario alcun ulteriore adempimento da parte del datore di lavoro. Ciò significa che, una volta accertata l’invalidità del recesso datoriale, il lavoratore ha diritto a riprendere la propria attività lavorativa e il datore di lavoro è tenuto a riammetterlo in servizio e a corrispondere la retribuzione dovuta.

In secondo luogo, la Corte ha affermato che la pubblicazione di contenuti diffamatori sui social network, qualora eccedano i limiti del legittimo diritto di critica, rappresenta una grave violazione del rapporto fiduciario che lega il lavoratore al proprio datore di lavoro. Tale condotta, infatti, è suscettibile di minare alle fondamenta il vincolo di lealtà e correttezza che deve caratterizzare la relazione lavorativa, giustificando, di conseguenza, il licenziamento per giusta causa.

Infine, la Cassazione ha chiarito che la valutazione circa la proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore rientra nell’ambito del giudizio di merito e, come tale, non può essere sindacata in sede di legittimità, a condizione che sia adeguatamente motivata.

In altri termini, spetta al giudice di merito, sulla base delle circostanze del caso concreto, stabilire se il licenziamento sia una misura proporzionata all’infrazione commessa dal dipendente, mentre la Corte di Cassazione può intervenire solo se rileva un vizio di motivazione nella sentenza impugnata.

La pronuncia della Suprema Corte si pone, dunque, come un importante precedente in materia di licenziamento per fatti extralavorativi, tracciando una linea di demarcazione tra legittimo esercizio del diritto di critica e condotta diffamatoria, e ribadendo l’importanza del vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro.

Foto: archivio Qdpnews.it
Autore: Gianluca Pillera – Sistema Ratio Centro Studi Castelli

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