Il datore rischia il risarcimento dei danni anche se il lavoratore è consenziente.
Uno dei principali motivi di contrasto tra lavoratore e parte datoriale è sicuramente costituito dall’osservanza dell’orario di lavoro.
Sul punto, l’art. 2107 c.c. stabilisce che la durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi speciali e dalla contrattazione collettiva.
Sulla scorta di tale principio, la normativa in materia ha fissato in 40 ore settimanali (48 con gli straordinari) il normale orario di lavoro, concedendo alla contrattazione collettiva la possibilità di concordare una durata complessiva minore, o anche maggiore ma sempre nel rispetto di una media annua di 40 ore.
Naturalmente, anche per tale disciplina sono previste delle deroghe come, ad esempio, quella indicata dall’art. 17, c. 5 D.Lgs. 66/2003, secondo cui non si applicano le disposizioni relative al normale orario di lavoro, alla durata massima della prestazione lavorativa e allo straordinario, per quei lavoratori la cui attività non può essere misurata, predeterminata o è determinata da loro stessi, più precisamente: dirigenti; personale direttivo delle aziende o altre persone aventi un autonomo potere decisionale; manodopera familiare; lavoratori del settore liturgico delle chiese e comunità religiose; lavoratori a domicilio e telelavoratori.
Posta la descritta tassatività delle norme che regolano l’istituto in questione, sappiamo benissimo che nella vita reale molto spesso detti limiti vengono “sforati” e sono numerosissimi i dipendenti che, di buon grado o loro malgrado, si intrattengono sul luogo di lavoro ben oltre l’orario previsto.
È tollerabile tutto ciò? È possibile accettare come prassi consolidata certe abitudini che tante volte poggiano sul consenso degli stessi interessati? Una recente giurisprudenza di merito ha risposto con un “no” secco e deciso.
Infatti, il Tribunale di Milano (sent. 8.08.2022) ha statuito che è vietato il lavoro prestato senza riposo e per un orario giornaliero eccedente i limiti legali, anche se la prestazione avviene con il consenso del lavoratore e compensata con una maggiorazione retributiva. Ha, pertanto, condannato la parte datoriale a risarcire il dipendente.
Una siffatta decisione è scaturita dal fatto che le regole che disciplinano l’orario di lavoro sono sottratte alla disponibilità delle parti, poiché soddisfano un interesse pubblico.
In realtà, nella sua decisione, il giudice milanese non ha fatto altro che recepire i principi fissati in materia dalla Corte di Cassazione che richiamano, da un lato, l’art. 2087 c.c. sull’obbligo in capo al datore di lavoro di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e morale dei propri dipendenti; dall’altro, l’art. 36 della Costituzione che sancisce il diritto del lavoratore a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito, nonché il divieto di superamento della durata massima della giornata lavorativa.
Tale obbligo di preservare l’integrità morale e psico-fisica del lavoratore incombe sul datore di lavoro anche quando è il dipendente a chiedere continui straordinari non previsti dal contratto.
Le possibili conseguenze in caso di inadempimento? Il pagamento delle maggiorazioni retributive, una sanzione amministrativa variabile a seconda dei limiti violati e del numero dei lavoratori coinvolti e, infine, come detto, il risarcimento del danno non patrimoniale.
Autore: Giovanni Pugliese – Sistema Ratio Centro Studi Castelli