La difficile arte del rimprovero costruttivo

Entrare in rotta di collisione non è difficile per chi esercita il ruolo di controllo, ma per un risultato efficacie ci si dovrebbe invece immedesimare nella controparte, evitando di ferire la sua sensibilità.

Avete presente un impatto frontale a 130 km/h tra due auto di ultima generazione? Bene, immaginate che una delle due auto rappresenti l’equilibrio psicologico ed emotivo del vostro dipendente o collaboratore di studio, dopo un rimprovero.

La metafora non è casuale ma frutto di un ragionamento per analogia. Vedete, sappiamo che le auto di oggi sono costruite in modo che in caso di collisione tutta la forza venga trasferita sul telaio, al fine di salvaguardare il più possibile l’abitacolo. Così, come l’energia assorbita dall’auto non può essere recuperata, perché trasmessa al veicolo, deformandolo in modo permanente, allo stesso modo quando il dipendente si scontrerà con il vostro severo richiamo, ne uscirà irrimediabilmente ammaccato.

Un rimprovero è una bomba al gas nervino per l’autostima della persona; non c’è cosa peggiore perché è demotivante; toglie sicurezza a prescindere se sia giusto o meno. Chi lo riceve lo ritiene sempre ingiusto. La sensibilità impedirà all’individuo di focalizzare il problema in sé, in quanto, alzerà le barriere emotive per proteggersi.

Avete presente cosa accade se provate a simulare un ceffone? L’istinto della persona che sta di fronte lo porterà ad allontanarsi schivando il colpo, concretizzando così la reazione “combatto o fuggo”. Allo stesso modo, si attiva la medesima reazione a livello psicologico, quando il proprio benessere si sente minacciato, manifestando una reazione istintiva del tipo: “accetto o nego”.

La mente inizierà a covare rabbia e in molti casi rancore, quindi spirito di vendetta: dal momento che la nostra psiche è vittima di attacchi che ne turbano il benessere, come le crepe in una parete che alterano l’integrità del muro, allo stesso modo la nostra sfera emotiva ne uscirà sconfitta e non più uguale a prima. Difficilmente una persona è portata ad accettare un rimprovero riconoscendo la propria responsabilità. La mente rifiuta e rimanda al mittente le accuse, magari non in modo plateale, ma di sicuro a livello inconscio.

La reazione porterà il nostro interlocutore a pensare: “Sei tu che mi hai messo in condizione di sbagliare”, oppure: “Tu non mi hai detto con chiarezza cosa avrei dovuto fare”; “La persona sbagliata non sono io”. Non c’è spazio per ammettere i propri errori, tutt’al più, sentirete frasi del tipo “Io sono fatto così”.

Per comprendere perché questo accade è sufficiente pensare come noi ci sentiamo dopo un rimprovero. Nelle relazioni entra in gioco l’ego, ovvero la parte primaria dell’uomo, la quale, se raggiunta da un “rimprovero-proiettile”, si ferisce irrimediabilmente.

Non è solo una questione di immagine di sé, ma è qualcosa di più grande perché ferisce l’anima, la personalità e i sentimenti dell’individuo. Se vogliamo scongiurare questi seri per quanto subdoli danni, dobbiamo evitare di colpire l’ego della persona, anzi, dobbiamo tentare di proteggerlo per evitare una reazione difensiva.

Immagino che adesso mi stiate dicendo: “Vabbè, Antò! Facciamo complimenti anche quando si sbaglia” Non è questo ciò che sento di consigliarvi. Voglio dire che far sprofondare chi vi sta di fronte “sotto due metri di terra”, non è l’unica soluzione possibile, perché la differenza non si annida in ciò che dite, ma nel come, dove e quando lo dite. Però su questo ci ritornerò nel prossimo articolo.

Autore: Antonio Di Giura

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