Lasciare il segno

Ottavio Bottecchia

Non è cosa di ogni giorno vedere una folla enorme di persone partecipare, gioire e applaudire a un campione del ciclismo e a un successo sportivo di cent’anni prima. E’ accaduto proprio in questi giorni a San Martino di Colle Umberto, nell’Alta Marca trevigiana, paese natale del grande corridore Ottavio Bottecchia, in occasione dell’inaugurazione del museo di ricordi, cimeli e trofei a lui dedicato, nell’anno che segna il secolo trascorso dalla sua trionfale vittoria al Tour de France nel 1924, bissata nel 1925.

Come a dire: le gesta leggendarie di un grandissimo campione dello sport non sono state dimenticate, e hanno anzi motivato il solerte impegno di associazioni e istituzioni locali che si sono prodigate per raggiungere un importantissimo traguardo di memoria e di identità collettiva. L’apertura del museo, infatti, rappresenta la testimonianza concreta della stima, della considerazione e della gratitudine per la storia individuale del ciclista Bottecchia, di straordinario valore per l’intera comunità, esemplare per la “tradizione”, la sua consegna, alle giovani generazioni.

Ma tutto questo non sarebbe avvenuto se alle radici di questa bellissima vicenda sportiva non ci fosse l’ammirazione di compaesani, sportivi e appassionati per la persona di Ottavio Bottecchia, le sue umili origini, la sua laboriosità come muratore, le sue imprese come caporale nel battaglione dei bersaglieri ciclisti che gli valsero la medaglia di bronzo al valor militare nella Grande Guerra, la sua voglia di riscatto, il suo spirito di sacrificio, la sua capacità di superare gli ostacoli più duri, la sua volontà insuperabile e mai doma di raggiungere la vittoria sportiva lontano da casa, al termine di una corsa ciclistica durissima, lungo le strade francesi aspre e difficili di un secolo fa. Non solo: questo collumbertese illustre lascia un segno indelebile anche per la sua capacità di ripetere l’anno seguente il 1924 l’incredibile successo, unico italiano di sempre a vincere il Tour di France in due edizioni consecutive, indossando tantissime volte la mitica maglia gialla, addirittura senza interruzioni dalla prima all’ultima tappa nella gara francese di un secolo fa.

Un  formidabile esempio, dunque, di uomo e di sportivo, che seppure riferito a un tempo passato della nostra storia non può che far riflettere, e soprattutto serve in generale a mettere in luce la bellezza e la pienezza di vite che hanno realizzato uno scopo, raggiunto una meta, dimostrato un talento, espresso sentimenti e calore di umanità, sperimentato la loro utilità per migliorare la qualità della vita e il benessere di tutti, manifestato capacità e competenze che hanno contribuito a innovare e a trasformare il corso della storia. Parliamo di persone, insomma, che hanno offerto  un contributo significativo alla cultura, alla scienza, alla socialità, allo sport, e che hanno lasciato una traccia incancellabile nella memoria collettiva perché hanno avuto una giusta stima di se stessi, hanno lavorato tanto, si sono prodigati per gli altri senza agire per il proprio tornaconto, non hanno temuto di avviare processi intraprendenti e lungimiranti, hanno avuto la pazienza, la costanza e il coraggio di guardare oltre le sconfitte e gli insuccessi e di puntare in alto.

Vite illustri, come detto, perché insigni e meritevoli, ma soprattutto perché luminose, eloquenti, capaci di dare luce, di essere veri punti di riferimento, radicate su principi basilari, fra i quali risaltano l’umiltà tipica dei grandi, l’autentico spirito di sacrificio, l’impegno costante e il generoso altruismo, il sereno ottimismo e la gioia di poter essere utili.

Perché tutto questo fa particolare notizia in questo tempo? Perché oggi sono in tanti purtroppo a perseguire altro genere di convincimenti nella loro esistenza, ben diversi da quelli che ispirano comportamenti virtuosi davvero capaci di lasciare il segno, di  incidere nel sentire comune, di suscitare apprezzamento e ammirazione, di generare feconda memoria e affettuosa gratitudine. In una società liquida ed evanescente, infatti, trionfano troppo spesso modelli di pura apparenza, di nessuna sostanza, di comodo profitto, di piaceri banali e trasgressivi, privi di qualsiasi volontà di fare bene, di amare la laboriosità, di costruire risultati nei vari campi dell’impresa e della socialità, di mirare a traguardi in cui il “trafficare i propri talenti” sia fattore decisivo per conquistare un bene più grande, personale e comunitario.

Tante “vite perdute”, all’affannoso inseguimento di esempi effimeri e dannosi, affollano il panorama delle generazioni giovani e adulte, vittime di solitudini incapaci di solidarietà e di condivisione, che rischiano di passare al mondo senza lasciare tracce di sorta degne di un ricordo al plurale. E allora viva Ottavio Bottecchia e le tante “vite illustri” che in tempi passati e recenti hanno donato lustro, orgoglio di radici e spirito di appartenenza a tantissime comunità locali del nostro Paese, perché hanno amato la vita, nonostante le difficoltà, e in virtù dei sacrifici sopportati e delle attività messe in campo hanno saputo guadagnare la giusta fama per le loro straordinarie imprese, toccando il cuore e la riconoscenza di tutti. Hanno lasciato il segno, e la loro eredità non andrà mai perduta.     

(Foto: Wikipedia).
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