Onorare la vita

Non può passare inosservata la data di oggi 9 ottobre, giorno esatto del sessantesimo anniversario del disastro del Vajont, che con l’enorme onda d’acqua uscita dalla diga costruita sopra Longarone  per la frana del monte Toc distrusse cinque paesi e causò la morte di 1917 persone. Un paesaggio lunare di morte, la cosiddetta “Hiroshima italiana”, con una ferita incancellabile nella storia della comunità bellunese, regionale e nazionale, essendo la più grave catastrofe vissuta dalla nostra Repubblica, seconda solo al terremoto dell’Irpinia.

Sono giorni di celebrazioni, eventi, ricordi pubblici, commemorazioni ufficiali, in una catena di iniziative che si muovono ovunque, in Veneto in particolare, a rappresentare una sorta di pellegrinaggio civile, il dovere di raccontare quello che avvenne, le responsabilità umane alla base di quella tragedia, il dolore infinito, di generazione in generazione. Dolore innocente, muto, sgomento, che non finisce mai, nonostante il passare del tempo, il trascorrere degli anni, il succedersi ormai dei decenni alle nostre spalle rispetto a quello che avvenne in quella terribile serata di devastazione e di morte.

Avendo avuto di recente la possibilità di incontrare persone residenti nell’area del Vajont, letteralmente sopravvissute, per un incredibile mistero del destino, a quella tragica vicenda, nel loro parlare, nella loro commozione, nella loro ricerca di dialoghi e di conforto abbiamo visto innanzitutto il sentimento profondo della solidarietà, della condivisione del dolore, della necessità di rendere onore a tutti coloro che, totalmente innocenti, perdettero la vita in quel terribile disastro.

E come se queste persone provassero da un lato il senso interiore, psicologico, morale di un incredibile privilegio per la vita conservata in quell’occasione, per un incredibile intreccio di circostanze fortunate, e se dall’altro tutto questo li portasse doverosamente a dedicare pensieri, parole, azioni concrete a promuovere il ricordo, a sollecitare la memoria, a condurre lungo i sentieri dell’omaggio sentito e affettuoso verso tutti coloro che non ci sono più, e che hanno pagato con il prezzo altissimo della vita le responsabilità attribuibili ad altri.

Per i sopravvissuti del 9 ottobre 1963 è come se fosse iniziato un tempo nuovo della loro esistenza, con la sensazione di una rinascita finalizzata a un impegno: raccontare a tutti quello che esisteva prima, i volti delle persone amate, dei familiari, dei parenti, degli amici che non ci sono più, travolti da un’ondata gigantesca di fango che in pochi attimi ha inghiottito vite, storie, comunità e identità di un intero territorio.

Rendere onore: ecco la missione civile, l’impegno di testimonianza, la delicatezza di un sentimento che attraversa una fase recente della memoria collettiva e costringe tutti a riflettere, a interrogarsi, a guardare la storia con occhi compassionevoli e pieni di lacrime e commozione, e al tempo stesso critici, esigenti, lucidi e intelligenti verso quello che avvenne in quell’orribile notte. Perché tutto questo non debba accadere di nuovo in altre parti, ripetersi in qualche modo, aggiungere lutti e rovine a quanto già successo con la diga del Vajont. E per prima cosa occorre ricordare davvero, non trascurare nulla, indagare sui fatti e sugli antefatti, rendersi protagonisti di un approccio alla storia che non faccia sconti e non si accontenti di mezze verità.

In fondo, vuol dire esercitare il senso di una cittadinanza culturalmente avvertita, consapevole e sensibile rispetto alle vicende dell’umanità, come se l’annientamento di Longarone e degli altri paesi vicini diventasse simbolo di un “mai più”, di un’attenzione matura e concreta per le vicende della collettività, da amare e rispettare, in tutte le forme e con tutte le scelte da realizzare, nell’ottica dell’autentico bene comune. E poi ci sono i sentimenti dell’onore alto e profondo per la vita vera di coloro che non ci sono più, perché le loro vicende individuali non abbiano a cadere nell’oblio, perché i nomi delle loro esistenze e le foto dei loro volti non possano essere mai dimenticati, perché i luoghi di quella tremenda tragedia posano essere conservati e custoditi come monito e lezione, per l’oggi e il domani.

Con l’irriducibile, operosa speranza di chi continua a nutrire fiducia nell’uomo e immagina sempre la possibilità che finiscano per sempre i tempi delle guerre e dell’odio, dello sfruttamento e della prepotenza, e si affermi ovunque la vita in pienezza e bellezza, per tutti.



(Foto e video: Qdpnews.it).
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