Il silenzio riflessivo, stupito, ammirato, di fronte all’eloquenza magnifica di uno straordinario interprete del nostro tempo, uno dei più grandi intellettuali dell’epoca attuale, stimato in tutto il mondo, con una ventina di lauree “honoris causa” a lui assegnate nelle più prestigiose università internazionali. Si potrebbero definire così i contorni della serata dello scorso 3 maggio all’auditorium Dina Orsi di Conegliano, protagonista il cardinale Gianfranco Ravasi, che ha incantato la platea con la sua cultura umanistica e religiosa e la sua capacità comunicativa.
Affermazioni, le sue, che hanno avuto proprio il tema del linguaggio, delle espressioni verbali, della comunicazione come argomento principe, dentro la narrazione biblica, ma non solo, e con significativi rimandi ai “viali informatici” che mettono in luce l’utilizzo – a suo dire – di “parole oggi tradite, ferite, deformate, spesso superficiali, tante volte volgari e offensive”, come dimostrano purtroppo i contorni frequenti delle relazioni interpersonali e i commenti e i confronti sui social. Lo ha messo in evidenza il famoso porporato milanese, ma diventa sovente oggetto di triste constatazione: la cosiddetta “overdose” informativa quotidiana si alimenta di un parlare continuo, di messaggi scritti e verbali di ogni tipo e qualità, di un cicaleccio che non risparmia niente e nessuno, di una tendenza al “gossip” che oramai investe ogni ambito e protagonista della vita sociale delle nostre comunità. Una sorta di tendenza irrefrenabile e diffusa a non far mai prevalere moderazione, pacatezza e ascolto del silenzio, ma al contrario ad alimentare continuamente pareri, commenti e condivisioni su qualunque cosa accada sotto il sole, emettendo giudizi e sentenze in continuazione.
E’ come se una verbosità smodata e petulante si fosse impadronita del comune sentire, in una ricerca della visibilità permanente che sarebbe garantita dal “parlo, dunque sono” e dall’emissione di “parole in libertà” che in tanti casi sembrano frutto della fretta di intervenire e di apparire a tutti i costi, e non certo della volontà di partecipare a un qualificato dibattito di opinione pubblica sulla base di seri e sereni convincimenti personali. E l’esperienza, anche negativa, rischia di insegnare poco in questi casi: basti pensare a quante volte, per il gusto impulsivo di dire una battuta, di proporre una frase a effetto, di voler stupire con l’immediatezza di una freddura si sono provocate tracce negative incancellabili nei rapporti interpersonali.
In questa attitudine alla loquacità permanente, che non si stanca mai di affermare le proprie “verità” insindacabili e incontrovertibili, risalta inevitabilmente l’atteggiamento leggero e poco razionale di chi non sembra comprendere la particolarità e la delicatezza delle situazioni, esemplificata dal famoso adagio per cui “il sapiente sa quel che dice, lo stupido dice quel che sa”. In generale, dunque, ci permettiamo di osservare che anche grazie alla parola giusta e congrua si possono porre le basi per una società migliore, in cui non sia ricercata e inseguita, e magari promossa e valorizzata a livello di mass media, un’ossessiva tendenza all’esternazione, qualunque essa sia, ma sia invece motivata e favorita una comunicazione davvero positiva ed efficace, utile e costruttiva, a livello di rapporti umani quotidiani e anche nella gestione dei processi d’informazione più ampi e strutturati. E poi si apre il fronte della qualità, e non solo della quantità e della frequenza, delle parole che vengono pronunciate.
Come ha affermato proprio il cardinale Ravasi nell’affollato incontro pubblico di Conegliano, “una parola cattiva detta non muore, anzi, proprio allora comincia a vivere e a fare danni”. Certo, molto spesso difettano l’intenzionalità, la volontà precisa di fare danni, di offendere l’altro, di mettere in discussione le sue virtù e la sua personalità. Sta di fatto che l’equivoco nella comunicazione è sempre in agguato: si può usare un termine in maniera incauta, si può peccare d’ingenuità con un’affermazione veloce e poco opportuna, si può fraintendere una parola e reagire bruscamente, talora in maniera irreparabile. Che cosa significa tutto questo? A nostro giudizio, che la bellezza delle parole, il valore della conversazione, il piacere della confidenza verbale, tutti segni di squisita umanità e attenzione fra le persone, non vanno messi in discussione o, peggio, gettati alle ortiche, attraverso comportamenti individuali poco consoni e meditati, addirittura critici e ostili. Da parole non debitamente soppesate e valutate nelle loro conseguenze, comunque, possono derivare conseguenze veramente spiacevoli: come detto sopra, si aprono infiniti contenziosi da semplici malintesi o da incomprensioni generate dalle famose frasi pronunciate in gran numero, in fretta, poco accorte e poco esemplari.
Apriamo dunque la nostra mente e il nostro cuore a una qualità della comunità interpersonale attraverso parole meno frequenti, più rare e consapevoli, e soprattutto più buone verso gli altri. Il silenzio e la meditazione possono aiutare. Anche l’ascolto della buona musica può essere estremamente utile allo scopo: essa stempera le tensioni, regala equilibrio, ridona serenità e mette tutti e ciascuno nella condizione di fare esperienza delle cose che hanno realmente importanza e contano davvero per poter diventare, giustamente, migliori.
(Foto: archivio Qdpnews.it).
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