Quando il 25 aprile 1431 la Gemma Querina mollò gli ormeggi e prese il mare in direzione delle Fiandre era carica di ogni ben di Dio: ottocento botti di malvasia di Candia, cera, spezie, cotone e allume di potassio, un sale molto ricercato dalle industrie tessili del nord Europa per fissare i colori sulle stoffe. Il veliero, una caracca veneziana, salpò dall’isola di Creta agli ordini di Pietro Querini, discendente da una famiglia nobile e antichissima, forse la medesima dell’imperatore romano Galba, il successore di Nerone. A dare manforte al Querini nel governo della nave e dei sessantotto uomini d’equipaggio c’erano due patrizi, il veneziano Nicolò Michiel e il fiorentino Cristoforo Fioravanti.
Nulla lasciava presagire che dopo cinque mesi di navigazione la Querina sarebbe stata investita da una serie di tempeste che da Capo Finisterre, in Galizia, la spinsero oltre il Circolo Polare. Priva degli alberi e con il timone in avaria, la nave divenne un relitto ingovernabile in balia delle correnti. Nel tentativo di salvarsi gli uomini salirono a bordo di due scialuppe di salvataggio, una delle quali scomparve nel nulla.
Il mercante veneziano, i due ufficiali e quarantasette marinai rimasero alla mercé delle onde sino ai primi di gennaio del 1432 quando, con la loro lancia, approdarono miracolosamente su un isolotto deserto dell’arcipelago norvegese delle Lofoten. Aggrappati a uno scoglio inospitale vissero (o meglio sopravvissero) per due settimane nutrendosi di vermi e molluschi marini cucinati con erbe amarissime che bastavano appena a mantenerli in vita. Furono i pescatori di Røst a trarre in salvo i superstiti che restarono per ben quattro mesi nel loro minuscolo villaggio.
Durante la permanenza a Røst i naufraghi della Querina rimasero impressionati da quel microcosmo sperduto nell’immensità dell’Oceano Atlantico, stretto fra il Mare del Nord e quello di Groenlandia, con un clima così diverso dalle miti stagioni mediterranee: tre mesi di luce ininterrotta, seguiti da nove angoscianti mesi di notte artica. Altrettanto sorprendente per i sopravvissuti fu constatare l’indole pacifica degli scandinavi, gente di bell’aspetto, onestissima e talmente timorata di Dio da non concepire alcun peccato, compresa la fornicazione e l’adulterio. A colpire gli ufficiali e la ciurma fu in particolare l’innocente disinvoltura delle donne norvegesi che, completamente nude, si mescolavano senza malizia agli uomini nei giorni dedicati alla sauna: una sorprendente assenza di lussuria che il Querini attribuì alle temperature polari, talmente severe da sopire ogni bramosia.
Per non soccombere dinanzi all’ostilità della natura selvaggia i centoventi abitanti di Røst potevano contare quasi esclusivamente sul pesce del quale non gettavano nulla, nemmeno la pelle usata per coprire i tetti. Come notarono il Fioravanti e il Michiel il pesce, in assenza di moneta, veniva ceduto ai mercanti tedeschi e inglesi in cambio di materie prime, abiti e alimenti fra i quali la segale, usata per fare il pane e la birra. Il valore delle risorse ittiche dell’arcipelago non sfuggì all’occhio attento di un mercante come il Querini che, in un resoconto redatto per il Senato della Dominante e oggi conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana annotò: “due sono le prede catturate abitualmente, gli stocfisi e le passare”. I primi, merluzzi nordici dalla carne magrissima, venivano esposti per diversi mesi al sole e al vento sino a che non diventavano duri come il legno. La seconda specie pescata, un pesce piatto noto come halibut o ippoglosso, era conservata sotto sale. Gli stocfisi, precisa il capitano da mar veneziano, per essere resi commestibili devono essere battuti e sfibrati con il rovescio della mannaia, quindi uniti a burro e spezie.
I merluzzi norvegesi essiccati al sole, al vento e senza aggiunta di sale erano il cibo prediletto dai Vichinghi durante la navigazione e furono i Normanni a portarlo in Sicilia. Circa l’etimologia del termine stoccafisso c’è chi opta per le origini nordiche della parola (stokkfisk – pesce bastone) e chi per quelle inglesi (stockfish – pesce da scorta). Il Querini ebbe sicuramente modo di apprezzarne l’eccellente qualità durante il suo soggiorno forzato alle Lofoten.
Trascorsi quattro mesi, a metà del mese di maggio 1432, i superstiti del naufragio ripresero la via del ritorno e fecero il loro ingresso a Venezia il 12 ottobre dello stesso anno. Se il vino greco e le altre merci caricate a Creta giacevano sul fondo del mare, il Querini non tornò a casa a mani vuote: con sé aveva sessanta stoccafissi delle Lofoten, la cui prelibatezza, durevolezza e versatilità conquistarono prima i veneti e poi di tutti gli italiani, prelati compresi, che nel Cinquecento inserirono il merluzzo norvegese fra i cibi da servire nei giorni di magro durante il Concilio di Trento.
Da quel naufragio del lontano 1431 è nata un’amicizia fra i pescatori di Røst, i discendenti del Querini e i cultori del “bacalà”. Eventi culturali, un parco letterario e addirittura uno scoglio ribattezzato “isola di Sandrigo” in onore del paese veneto depositario della ricetta tradizionale del baccalà alla vicentina celebrano una disavventura trasformatasi in opportunità e un pesce che allo stesso tempo divide e unisce. Se il veneto baccalà altrove si chiama stoccafisso (fuori dal Triveneto per baccalà si intende il merluzzo sotto sale), tutte le regioni italiane vantano una ricetta locale: dallo stoccafisso all’anconetana, alla livornese, alla ligure, alla napoletana, alla messinese sino allo stocco mammolese, vanto della Calabria.
Di fronte a tali meraviglie non resta che sollevare un calice in onore di Pietro Querini, del suo equipaggio e dei generosi pescatori delle Lofoten. Quale vino scegliere? Ovviamente una Malvasia di Candia, come quella che da seicento anni fa compagnia ai banchi di merluzzo nelle profondità atlantiche.
(Foto: Wikipedia).
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