“Le mafie in rosa”: la storia di Anna Mazza, la “vedova nera” della Camorra e del suo soggiorno obbligato in Veneto

“Le mafie in rosa”: a Codognè la storia di Anna Mazza

Codognè, aprile 1993. Fu improvvisa e destabilizzante per la popolazione la notizia che sarebbe arrivata proprio a Codognè Anna Mazza (scomparsa nel 2017), da Afragola (Napoli), figura controversa in quanto la prima donna in Italia a essere condannata per reati legati all’associazione mafiosa.

Arrestata nel 1987, fino ad allora portò avanti un personale concetto di matriarcato nella Camorra. Soprannominata la “vedova nera” (e anche “la signora”), dopo la morte del marito Gennaro Moccia (ucciso in una “guerra” tra clan rivali)), assunse il comando del clan Moccia ad Afragola, divenuto nel tempo il più influente nella gestione degli appalti edili, nell’acquisto di terreni edificabili e nel controllo delle cave.

Era il 17 aprile 1993 quando, alle 9 del mattino, il sindaco dell’epoca di Codognè, Mario Gardenal, ricevette all’improvviso in municipio una telefonata proprio dalla stessa Mazza, che gli comunicava che il 19 aprile sarebbe arrivata nel suo Comune per un soggiorno obbligato, su provvedimento della Magistratura-Questura di Napoli.

Secondo la documentazione dell’epoca Gardenal si mosse “a chiedere informazioni e chiarimenti a Prefettura, Questura e Carabinieri”, ma “nessuno sapeva assolutamente nulla”. Soltanto il maresciallo della stazione locale dei Carabinieri, “in via riservata e informale”, gli diede conferma di questo arrivo. Arrivo che avvenne il 18 aprile, ovvero un giorno di anticipo rispetto a quanto in precedenza annunciato.

Come si legge nei documenti di quel tempo, venne considerato “inconcepibile che il sindaco del Comune interessato”, fosse stato “messo al corrente del provvedimento da parte del soggiornante e non, invece, dalle istituzioni”.

Il primo cittadino, quindi, avendo ricevuto la notizia in via ufficiosa e senza la possibilità di visionare l’atto con cui la Procura di Napoli disponeva il confino della camorrista, decise di sistemare Anna Mazza in un alloggio provvisorio, alla locanda “La Pergola”. Tutto cercando di “non fare sensazionalismo”, come lui stesso affermò in un’intervista dell’epoca.

In realtà, Codognè aveva dovuto gestire altri casi di soggiorni obbligato in passato, negli anni sessanta e settanta: in quei casi, però, ci fu un congruo preavviso e la ricezione di una documentazione ufficiale.

L’arrivo della donna scatenò proteste da parte della popolazione, attirandosi una grande attenzione mediatica, grazie anche all’attivismo dell’allora onorevole della Lega Nord Fabio Padovan, impegnato in scioperi della fame e sit-in in tenda (la cosiddetta “tenda della libertà”), e all’arrivo in loco di esponenti della politica nazionale. Indignazione che procedeva a suon di slogan come “Mafiosi? No grazie!”, “Non vogliamo qui i camorristi”, “Vogliamo il Veneto libero e pulito”.

Venne addirittura promossa una petizione per mandare via la donna napoletana, la quale se ne andò effettivamente nell’agosto di quell’anno.

Da parte sua, Anna Mazza in un’intervista rilasciata raccontò di aver avuto la sensazione che la protesta contro di lei fosse “un terremoto”: “Non mi hanno dato una misura di prevenzione, mi hanno dato il patibolo”, affermò nel filmato.

Un attivismo di Codognè che portò all’abrogazione della normativa sul soggiorno obbligato, tramite un referendum (a firma del Partito Radicale e della Lega Nord), “andato in scena” l’11 giugno 1995, con un risultato elettorale pari al 63,68% a favore dell’abrogazione stessa.

Una mostra e un incontro pubblico per non dimenticare

È questa la storia riemersa venerdì a Codognè, a trent’anni di distanza da quei fatti, in occasione dell’incontro pubblico “Le mafie in rosa”, organizzato in biblioteca dal Comune, con il contributo della Regione Veneto, alla presenza del sindaco Lisa Tomasella, del vicequestore Vincenzo Zonno, del comandante della Polizia locale di Conegliano Claudio Mallamace, del consigliere regionale Roberto Bet, dell’onorevole Gianangelo Bof, oltre ad amministratori di altri Comuni.

A fare da cornice, una mostra (aperta fino al 3 febbraio) dedicata alla vicenda di Anna Mazza a Codognè, completa di documenti e articoli dell’epoca, oltre a uno spazio riservato a coloro che dissero “no” di fronte alla mafia e alla criminalità organizzata.

Protagonisti della serata Luca Testaroli, procuratore aggiunto del Tribunale di Firenze, e Antonio Fojadelli, ex procuratore del Tribunale di Treviso, in dialogo con il giornalista Danilo Guerretta. Testaroli e Fojadelli hanno spiegato il concetto alla base del soggiorno obbligato e la “filosofia del pentito”, trattando anche il caso di Felice Maniero e della Mafia del Brenta.

“Oggi ci sono strumenti efficaci di contrasto al crimine mafioso e per colpire il patrimonio (da ricordare che l’obiettivo dei mafiosi è l’arricchimento) – hanno spiegato – La legislazione sui collaboratori di giustizia è divenuta importante”.

“Il soggiorno obbligato, in un altro territorio, deriva dalla consapevolezza della capacità dell’attività criminale di legarsi al territorio: si tratta quindi di sradicare la persona dal proprio territorio e dai suoi contatti – hanno proseguito – A questo punto, un ‘criminale di rango’ cerca di patteggiare con lo Stato. Il soggiorno obbligato fu quindi un fenomeno da accettare e da capire”.

“Quando un criminale decide di gettarsi nelle mani della giustizia, lo fa per mero calcolo: la lontananza dal proprio territorio, infatti, indebolisce la sua posizione. Si tratta di un calcolo utilitaristico che fa anche per salvarsi la vita – hanno continuato – Senza il pentitismo non avremmo fatto così breccia nelle associazioni criminali: è stato il miglior affare che lo Stato abbia mai fatto nell’attività di contrasto ai fenomeni mafiosi”.

Pentitismo che, però, non riguardò i maggiori capimafia, come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro. “Questo per una cultura mafiosa che li portò a scegliere di esercitare il proprio status di potere da dentro le carceri – hanno concluso – Bisogna ricordare che ci può essere terreno fertile per le organizzazioni mafiose, dove c’è la possibilità di avere una fonte di guadagno. Le strutture mafiose hanno modalità sempre nuove nel loro operato, cosa che presuppone un continuo aggiornamento per le Forze dell’Ordine“.

(Foto: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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