“L’Occidente ha tentato di imporre con la forza la democrazia in Afghanistan. Il ritiro? Troppo precipitoso”. Parla l’ex diplomatico a Kabul Cesare Capitani

“A Kabul ho imparato una cosa: qualsiasi intervento fatto in Afghanistan non avrebbe avuto esito positivo”. Sono queste le parole di Cesare Capitani, nativo di Asolo, che di passaggio al Caffè Centrale racconta la sua esperienza da incaricato d’affari a Kabul dal 1980 al 1983, proprio negli anni in cui il Paese subiva l’intervento sovietico.

In quell’occasione, il Ministero degli Esteri cercava una persona da inviare in sostituzione all’ambasciatore, che era da poco stato rimpatriato: Capitani, che lavorava a Londra come numero due dell’ambasciata italiana, aveva accettato e, dopo un lungo viaggio, era arrivato a Kabul il 4 gennaio, mettendosi al lavoro per evacuare tutti gli italiani rimasti nel Paese. “Dovevo starci tre mesi, ci sono stato tre anni”.

Lei è stato Incaricato d’affari in Afghanistan sotto l’occupazione sovietica: come si sente nel vedere il Paese in queste condizioni?

“Quello che sta avvenendo a Kabul è molto triste. Quello è un popolo che fa innamorare, sono fieri e onesti – inizia a dire Capitani, prima di fare una premessa necessaria – Noi diplomatici non facciamo politica, siamo degli esecutori: ho sempre sostenuto l’inutilità di un intervento, come me molti altri, ma l’Italia non è sola, fa parte della Nato, e la mia opinione conta zero. Non credo che il Paese sia cambiato da allora”.

La presa di Kabul è stata percepita dai media internazionali come un fatto “fulminante”. È stato davvero così?

“L’anno scorso, durante alcuni incontri, al tavolo voluto da Trump a Doha c’erano anche i talebani. Poi Biden ha annunciato il ritiro, che è stato effettuato troppo velocemente. Credo che il ritiro sia stato molto precipitoso, troppo. Per esempio, se avessero voluto, i talebani avrebbero potuto bloccare l’aeroporto, ma non l’hanno fatto. Non voglio colpevolizzare nessuno, ma non è stata mantenuta la sicurezza delle persone: le truppe avrebbero dovuto fiancheggiare i civili in un processo di assestamento”.

Crede che una forma di sultanato islamico possa mantenere un equilibrio non violento in Afghanistan?

“È tutto da vedere: forse non lo sanno nemmeno loro. Nelle giornate scorse i talebani hanno dichiarato alla stampa che avrebbero rispettato alcuni punti. Ce ne sono alcuni che ritengo molto difficili da concretizzare: in Afghanistan non si permetterà il commercio della droga, ma è un settore economicamente rilevante. Si parla molto delle donne, ma viene sottolineata con vigore quella frase “all’interno delle regole della sharia”. Potrebbero cercare di non commettere gli stessi errori, però non sarà una transizione facile”.

Quali sono gli altri attori di questa scena e perché sono così interessati al Paese?

“L’Afghanistan ha un’incredibile quantità di ricchezze e materie prime. Ci sono forti interessi economici. In più non tutti sanno che, per soli 130 chilometri, l’Afghanistan confina con la Cina. Sono convinto che nel futuro vedremo una gara tra cinesi e russi per aumentare l’influenza sul Paese. Per quanto riguarda noi occidentali, invece, abbiamo tentato di imporre la nostra democrazia in un Paese che ha ancora dinamiche tribali, ovvero che difficilmente riesce a essere unito. E, tra l’altro l’abbiamo fatto con la forza”.

Cesare Capitani, che è stato ambasciatore anche in Oman, in Birmania e console generale in Argentina, ma ha esperienze anche in altri scenari e ruoli analoghi, conclude con una riflessione sulla qualità del racconto che quotidianamente ci arriva dal Medioriente: “Su Kabul hanno detto tutto e di tutto. Io ho vissuto quando si sparava in Birmania, quando si sparava in Vietnam, durante la ritirata da Saigon a Bangkok, e purtroppo mi rendo conto che spesso i media esasperano i concetti e il racconto delle situazioni. Sembra sempre che tutto vada a fuoco con qualsiasi tipo di cambiamento politico. Quella di Kabul è sicuramente una tragedia, ma non bisogna esagerarne i concetti. E bisogna sempre tenere presente che quando arriva la guerra significa che, prima, la diplomazia ha fallito”.

(Foto: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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