Se n’è andato Alziro Molin, il più grande rocciatore delle Dolomiti: scalò il mondo, poi tornò tra le sue vette ad Auronzo

Alziro Molin
Alziro Molin

Una figura leggendaria dell’alpinismo cadorino, l’auronzano Alziro Molin, si è spento all’ospedale di San Candido (Bolzano), nella notte tra lunedì 10 e martedì 11 aprile. Alziro era nato il 28 aprile 1932 ed era considerato il più grande rocciatore delle Dolomiti. Era definito “il vecchio” proprio per la sua incredibile esperienza nell’affrontare, con perenne rispetto, le sue montagne.

Già da giovanissimo fece parte dei “Camosci di Auronzo” e fu comparsa in un documentario del regista vittoriese Giuseppe Taffarel, (“L’ultimo contadino” nel 1975), che lo scelse per la sua espressività e sincerità nel raccontare la vita di un bambino di montagna. Durante il servizio militare, divenne istruttore della “Cadore” e poi della Scuola militare alpina.

Secondo chi ha viaggiato con lui, ma anche secondo chi è stato suo cadetto, Alziro rappresentava il vero alpinista genuino, nato e cresciuto tra le cenge delle montagne più belle del mondo: se ne stava dietro alle quinte, preferendo il silenzio delle vette incontaminate alle chiacchiere di paese.

A 25 anni tornò ad Auronzo di Cadore per sposare la sua Raffaella (Caldart), che a quel tempo aveva 17 anni, con cui crebbe sette figli. Per lui, lei fu sempre una colonna portante: “Non ha senso rinunciare in due – gli diceva sempre lei, appoggiandolo prima di qualsiasi spedizione -. È giusto che tu vada”. E così Raffaella, con spirito di sacrificio, manteneva l’attività di famiglia e gli consentiva di viaggiare: “Senza di lei – riconosceva anche lui in vita – non avrei mai potuto fare quello che ho fatto”.

Ad Auronzo divenne maestro di sci e guida alpina, insegnando anche alla Commissione tecnica nazionale. Dal ’74 divenne presidente del CAI locale, titolo che mantenne a lungo. Fino a pochi anni fa, a quasi novanta primavere, la vecchiaia sembrava non averlo minimamente scalfito e in paese lo ricordano bene spostarsi con l’auto da una parte all’altra, fino a Misurina dove gestiva il Camping Alla Baita.

Ma la vita di Molin è stata costellata di spedizioni internazionali, di cui l’alpinista non parlava spesso con la gente del paese: scalò le Hoggar Mountains in Algeria, l’Hindu Kush in Afghanistan, l’Angmagssalik in Groenlandia, l’Alto Atlante in Marocco, il massiccio del Tsast Uul in Mongolia, affrontò il Monte Elbrus (il più alto d’Europa), il Damaven in Iran, il Chimborazo in Ecuador, lo Yerunpaja in Perù, il Pico Cristobal Colon in Colombia e ancora sui monti Altaj in Mongolia, in Patagonia e anche sul monte Everest. Nel Caucaso, ricorda una delle figlie, rischiò la vita dopo essersi perso.

Nonostante tutte queste esperienze, Alziro amava immensamente le Dolomiti e diceva sempre che non c’era niente di simile nell’arrampicare altrove: la leggendaria via sulla Croda dei Toni, di cui era stato pioniere, era decisamente la sua preferita.

La sua storia non verrà dimenticata anche grazie alla biografia che sua figlia Uta ha redatto (anche con l’aiuto delle “interviste” dei nipoti al nonno), collezionando i tanti ricordi dell’alpinista, che nell’ultimo periodo parlava più volentieri della sua vita. L’opera si chiama “Sessant’anni di alpinismo” e, anche solo leggendo il primo capitolo, intitolato “Borgata Paìs”, appare chiaro come la passione di Alziro fosse sincera e inarrestabile.

Meno nota alle cronache locali è invece la sua bontà e la sua gentilezza in casa: “Alziro era per la sua famiglia prima di tutto un padre, un nonno, un bisnonno premuroso e affettuoso” spiegano le figlie Uta e Alessia. Aveva 14 nipoti e 12 pronipoti, dai figli Monica, Nicola, Uta, Luca, Rodolfo, Alessia e Ivano. Negli anni aveva anche perso due figli, Nicola e Luca, ma con la moglie aveva avuto la forza di andare avanti e prendersi cura anche dei nipoti. Federico, in particolare, gli era particolarmente affezionato.

“Ho tanti ricordi del tempo trascorso con Alziro Molin sulle montagne del mondo – lo ricorda Gianni Pais Becher, che con lui ha fatto diverse escursioni -. Nel 1973, ai primi di settembre, carichi come i muli salimmo al bivacco Tiziano. Trascorremmo una settimana lassù, quando ancora le Marmarole erano sconosciute. Volevamo aprire delle vie nuove. Ricordo anche che nel 1996 io e Alziro andammo fino alle sorgenti del fiume Gallo in Tibet, per fare un sopralluogo a una cima inviolata che avremmo scalato l’anno successivo insieme ad alpinisti cinesi”.

“Ponemmo la tenda a 4800 metri di altezza, vicino ad alcune tende di pastori tibetani. Fuori nevicava e fummo svegliati improvvisamente da un ululare fortissimo di un branco di lupi. Siamo usciti con le piccozze in mano insieme ai pastori per scacciare con grossi bastoni i lupi che volevano aggredire le loro pecore”.

“Alziro è uno dei personaggi più importanti dell’alpinismo italiano degli anni ‘60-’70 – lo ricorda Giovanni Carraro, che l’ha inserito nel documentario sulle Tre Cime e nel libro “Dolomiti, uno sguardo tre le rocce” -. Ricordo con grande emozione la sua presenza: dev’essere un esempio per le nuove generazioni di alpinisti, essendo capace di associare al chiodo e alla tecnica anche la parte umana”.

(Foto: Onoranze Funebri A Dolomitica – Wikipedia).
#Qdpnews.it

Total
0
Shares
Articoli correlati