La disperazione dopo la catastrofe: tre racconti “collaterali” al Disastro del Vajont

La prima pagina de “Il Giorno” dell’11 ottobre 1963

“Non c’è più nulla da fare o da dire tra fango e silenzio”: con questo titolo apre un articolo de “Il Giorno” datato 11 ottobre 1963. Parole semplici che, come tanti altri titoli di giornale di quei giorni, racchiudono tutta la disperazione di quei momenti catastrofici. Come “Il paese sbriciolato” o “Guarda le casse che non hanno un nome”.

Titoli che descrivono un vuoto, un’assenza, forse simile a quella che anche noi, nelle nostre piccole catastrofi quotidiane, conosciamo quando sembra che ci stia accadendo qualcosa di grave e irrimediabile. Poi ci consoliamo, ci facciamo coraggio, diciamo “vabbè” e andiamo avanti.

Ma quando un paese intero viene sbriciolato via, quando qualcuno perde non uno o due, cinque o dieci, ma ben quaranta persone care, quando quasi duemila vite vengono stracciate da un disastro assoluto, potenzialmente causato tra l’altro da un errore umano, quel vuoto non può che diventare una voragine. E se un buco si può tappare, davanti a una voragine profonda è proprio vero che non c’è nulla da fare né nulla da dire.

E tutti sono d’accordo con il fatto che, davanti alle tombe di queste vittime, c’è da rimanere in silenzio: come ha fatto il presidente Sergio Mattarella ieri al cimitero di Fortogna. Gli errori umani, l’avidità, l’irresponsabilità, la fretta, le chiacchiere, le mezze verità, i tribunali, le leggi degli uomini, non appartengono a quella Longarone sommersa. Appartengono invece al mondo dei vivi, dove invece dobbiamo farci coraggio.

Con questo sentimento, ci apprestiamo a raccontare tre aneddoti realmente accaduti di persone comuni che, nel Bellunese, hanno vissuto piccoli episodi collaterali al disastro del Vajont. Si tratta di storie tramandate oralmente da terzi, che di conseguenza, per la classica tendenza dei paesani a modellare i racconti, potrebbero presentare delle distorsioni rispetto ai fatti.

La bambola nascosta

Manuela aveva cinque anni quando, qualche giorno dopo il disastro del Vajont, sua madre entrò in camera sua e le domandò arrabbiata dove avesse messo la bambola nuova. Manuela l’aveva nascosta in profondità nel baule affinché nessuno la trovasse. Già il giorno precedente, a cena, la mamma gliel’aveva chiesta gentilmente, dicendole che più avanti ne avrebbero comprata un’altra uguale. Ma quella bambola – proprio quella – che era stata comprata in un negozio fuori dal paese per il suo compleanno ed era così bella e colorata, era sua e non capiva proprio perché mai avrebbe dovuto darla via a qualcun altro.

E anche se i suoi genitori avevano usato il verbo “prestare”, lei aveva ben capito che non sarebbe andata così: che non l’avrebbe rivista mai più. Il giorno dopo, non riuscendo a resistere alla tentazione di riafferrarla, Manuela aprì il baule e se la portò al petto. In quel momento, sua madre entrò e gliela strappò dalle mani: “È per le bambine di Longarone – le disse, – che hanno perso tutto”. Manuela si sentì arrabbiata e quel gesto le sembrò così ingiusto, ma così ingiusto. La bambola finì in un grande cesto, colmo di oggetti per bambini: tutto il paese aveva donato. E quanti bambini, innocenti ed ingenui, avevano fatto i capricci.

La “benedizione” del cacciatore

Capitò a un cacciatore di trovarsi su un sentiero scosceso tra Ospitale e Longarone. Quelle vaste lande che si vedono ai lati dell’Alemagna, piene di pendii uniformi, ghiaioni e pareti di roccia, sono ancora oggi considerate una delle aree più selvagge e impervie d’Europa. Era stata una battuta di caccia impegnativa e poco infruttuosa, così il cacciatore aveva deciso di fare ritorno a passo spedito. Già era molto buio e faticava a vedere il percorso.

Aveva rinfoderato il fucile, scarico, e si era messo a sistemarsi lo scarpone su una pietra quando, da una piana boscosa all’orizzonte, sentì scalpitare e trottare. Era esperto di fauna come pochi altri in paese: chiuse gli occhi per ascoltare e, riconobbe sia il trotto del cervo sia quello del capriolo. Mentre lo zoccolare s’intensificava, vide all’orizzonte, nel giro di pochi minuti, una moltitudine di dorsi irsuti e palchi attraversare il sentiero perpendicolarmente, come farebbe una mandria di cavalli. E, dietro di loro, giurò di aver visto anche delle volpi, sempre nella stessa direzione. Mai aveva visto tante bestie nello stesso momento. “Una benedizione” pensò, senza tuttavia girarsi a prendere l’arma.

Quegli animali fuggivano da qualcosa, seguendo un istinto primitivo o chissà quale vibrazione che noi, poveri umani, con le nostre tecnologie e la nostra mente sempre più evoluta, abbiamo dimenticato come percepire. La montagna aveva parlato e i suoi sudditi avevano saputo ascoltare.

L’orrore sul Piave

Nei giorni successivi al disastro del Vajont, molti soccorritori furono costretti a sottoporsi a sedute psichiatriche: le scene che furono costretti a vedere (e spesso anche a lavorare) avrebbero messo alla prova la sensibilità di chiunque, anche del più cinico tra gli scienziati. La violenza dell’acqua aveva dilaniato gli edifici e non solo, le vittime erano spesso irriconoscibili, quasi sempre denudate e spesso anche in luoghi ardui da raggiungere, talvolta appesi alla cima dei pochi alberi rimasti.

In realtà, lungo tutto il corso del Piave era possibile imbattersi in scene raccapriccianti: i cadaveri venivano trascinati dalla corrente fino alla vicina Belluno, arrivando anche nella Marca Trevigiana e oltre. Nei giorni successivi all’accaduto, per esempio, un agente di commercio stava pranzando in un ristorante del bellunese esposto verso il Piave quando avvistò alcuni corpi defluire nel fiume.

Proprio quest’ultimo raccontò che molti presenti in sala, tra cui anche moltissimi operai venuti a lavorare per liberare la valle dal fango e dai detriti, scoppiarono a piangere come bambini. Nei giorni successivi, il ristorante coprì le vetrate che davano sul Piave con del telo opacizzante, affinché quello spettacolo non si ripetesse. Purtroppo, le mantenne per diversi giorni.

(Foto: Qdpnews.it riproduzione riservata – Quotidiano IL GIORNO, 11 ottobre 1963).
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