“Quella diga è la morte”: voci dimenticate da Podenzoi, il paese che vide sparire Longarone dall’alto

Luciano, storico residente a Podenzoi

A dividere Longarone da Podenzoi, una piccola frazione che sovrasta il centro e che si trova di fronte alla diga del Vajont, c’è una salita ripida, che continua per qualche chilometro. Prima della seconda metà del Novecento, i ben ottocento abitanti di questa località – a quel tempo sotto l’amministrazione di Castellavazzo – percorrevano quel tragitto senza mai lamentarsi della fatica. Si recavano a Longarone quasi sempre volentieri, perché era ricco di botteghe, perché c’era una pasticceria e una bella piazza. La gente di Podenzoi si sentiva legata a Longarone.

La signora Silvana, per esempio, si ricorda di quando da ventenne andava a ballare, ricorda le belle sagre e i bambini, tantissimi e dappertutto, per le contrade, a inventarsi giochi sconclusionati e sempre diversi. Mentre guarda le capre e i caproni al pascolo davanti al suo cortile fiorito, l’ottantottenne Luciano ricorda le vecchie case, a quel tempo in cui la parola cemento non avrebbe mai potuto descrivere il paesaggio di Longarone.


La signora Silvia, che oggi ha 95 anni compiuti e si reca al rosario per i Caduti del Vajont, anche lei a valle conosceva tutti. In quegli anni, dopo la guerra, il paese aveva ancora un panificio, un bar, aveva tante famiglie che praticavano l’alpeggio, specie coi “busnic”: ma i soldi non bastavano mai e i giovani, quelli che volevano farsi una famiglia, partivano tutti per l’estero, perché di lavoro non ce n’era. In Svizzera a lavorare in fabbrica o in Germania a fare il gelato.

E possiamo immaginarlo lo scenario bucolico in cui vivevano (e per certi aspetti vivono ancora) percorrendo i vicoli di Podenzoi sotto lo sguardo attento dei pochi anziani, che seduti sulle panchine o impegnati negli orti rispondono con grande gentilezza alle nostre domande. “Cosa avete visto da quassù?” chiediamo loro, riferendoci al disastro del Vajont, e i loro occhi subito iniziano a brillare.

La mattina del 10 ottobre 1963, per passaparola, per telefono o per telegramma, la notizia arriva anche agli emigrati in Svizzera e in Germania: “Longarone non c’è più. L’acqua l’ha portata via” dicono a Silvia, che subito raccoglie le sue cose e si mette in viaggio. “La diga ha ceduto – si vocifera tra bellunesi, – Quella maledetta diga ha ceduto”.

A Longarone, ci racconta la signora Silvana mentre raccoglie i lamponi prima che i cervi vengano a mangiarseli, si diceva chiaramente anche prima della disgrazia: “Quella diga è la morte. Quella diga è la morte”. Si ripeteva due volte, per essere sicuri. “E quell’errore umano. Cinquecento bambini. Com’è possibile che sia avvenuto?” ci chiede.

Silvana, che aveva fatto un’esperienza all’estero a far gelato, lavorando dalle sei a mezzanotte ogni giorno, era tornata in paese e aveva trovato lavoro in una filanda.

“Filanda Vajont, si chiamava – racconta, – E c’era un ragazzo che avevano appena preso. Un mio coetaneo. Aveva deciso di fare il turno di notte, mentre io facevo quello di giorno. E diceva sempre qualcosa come: “Questo lavoro mi ucciderà”. E così è stato. Quella notte, l’ha portato via, assieme a tanti dei miei colleghi”.

Silvana si trovava a casa, quando sentì un’improvvisa scossa, come di un terremoto: “Abbiamo preso e ci siamo messi là dove oggi c’è la chiesetta – racconta -. Non si vedeva nulla: era tutto buio e in fondo alla valle c’era una fitta nebbia”.

“C’erano due belle ragazzine – continua – Nora e Ondina. Di otto e dieci anni. Erano rimaste sole perché i genitori erano andati in Germania, così stavano quassù, con noi. E per dieci giorni i loro genitori sono tornati, così loro li hanno raggiunti giù a Longarone. E proprio in quei giorni, eccola là, è arrivata la morte”.

“Ricordo un fiume bianco di detriti e torrenti marroni di fango” spiega l’ultranovantenne Silvia, diretta energicamente con la figlia alla chiesetta che la comunità di Podenzoi si è costruita orgogliosamente, da sola. Oggi vi si tiene un rosario, autogestito, perché di questi tempi mancano i parroci per fare la messa.

Chi ricorda quel periodo ricorda che, subito dopo il disastro, nessuno aveva preso in considerazione l’idea che l’acqua avesse effettivamente scavalcato la diga: tutti pensavano che il mostro di cemento avesse ceduto strutturalmente.

Anche a Luciano, che lavorava in Svizzera, dissero che il paese era scomparso. Si preoccupò per sua sorella, Piera, che era rimasta a casa e che fortunatamente ancora oggi vive con lui. Anche Luciano partì subito dopo, arrivando in tempo per vedere l’immane disastro che quell’errore umano imperdonabile aveva causato.

“Ricordo le fosse. Le fosse che l’acqua aveva scavato nella terra. E dentro i detriti e le carcasse delle bestie”. E le parole “bestie” e “fosse”, Luciano le ripete più volte nel suo racconto, riuscendo perfettamente a farci capire quanto quello scenario fosse talmente confuso da non riuscire a distinguere una cosa dall’altra. Lo lasciamo sulla sua veranda, con gli occhi azzurri fissi all’orizzonte, sperando di non aver risvegliato in lui ricordi troppo tristi.

Podenzoi è uno di quei borghi dimenticati dove la natura è tornata a prendersi ciò che l’uomo nel tempo ha messo da parte: “Pensi un po’ che in questi boschi i lupi sono tornati, anche in paese qualche volta – ci racconta una signora, – Ma i bambini invece, quelli non sono tornati. I giovani qui se ne vanno, oppure non fanno più bambini. Ma quanta gioia portavano a Podenzoi? E a Longarone? Ormai sono anziana, ma me la ricordo quella gioia. Quella che solo i bambini possono portare”.

(Foto: Qdpnews.it ©️ riproduzione riservata).
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