Ieri e oggi la passione per la caccia a Cavaso: al di là della polemica, tra segugi fidati, convivialità e tradizione

 

Berretto mimetico, fucile nel fodero, pallettoni nella cartucciera e un fidato segugio al guinzaglio: si sale su una Mitsubishi Pajero ed è tutto pronto per una battuta di caccia tra amici, sul Tomba o nelle foreste di castagno che sovrastano la Valcavasia.

Al di là delle solite considerazioni sulla moralità della caccia, alcuni degli iscritti alle quattro associazioni venatorie di Cavaso del Tomba raccontano che esiste un’etica ferrea e secolare che si tramanda di generazione in generazione, oltre a un rispetto per la natura che supera ogni stereotipo.

La caccia a Cavaso ha origini lontane e dalle testimonianze di due veterani di questa disciplina, Salvestrin Guido, classe 1933, e Domenico Sartor, classe 1936, si deduce che aveva un significato importante per i giovani di un tempo: “È stata la mia più grande passione – racconta Guido, – Ho preso la licenza il giorno dopo aver compiuto 16 anni e da allora non ho mai smesso”.

Può sorprendere come nell’intervista i due soci anziani della riserva non accennino mai alla grandezza, la rarità o la quantità delle prede, ma piuttosto ai momenti conviviali e al rinnovo della propria licenza.

E infatti Domenico Sartor racconta: “Ricordo le domeniche quando salivamo con un amico di Castelcucco nella casetta di montagna per abbrustolire la polenta: una fetta di formaggio e una di soppressa, vin e caffè. Quello sì era “godersela”.”

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Attualmente ci sono 49 iscritti alla riserva, spiega il presidente Renzo Andrighetto: “Per ottenere la licenza non basta saper tenere in mano un fucile. È necessario avere una fedina penale immacolata, affrontare esami teorici e pratici. Per cacciare in zona Alpi bisogna seguire delle ulteriori regole specifiche e rispettare il numero di capi da abbattere, regolato dal censimento primaverile”. Ogni cacciatore ha i suoi segreti, sia per quanto riguarda gli appostamenti, sia per le tecniche e specializzazioni.

C’è però un aspetto che sembra accomunare tutti: l’interesse maggiore viene solitamente riposto nei confronti del livello di fiducia che viene stretto con il proprio ausiliare. Si definisce così, il segugio che i cacciatori educano per essere ottimi aiutanti nella caccia.

Chi va col cane vuol bene al cane, chi caccia con gli uccelli vuol bene ai suoi uccelli. Sono membri della famiglia. La caccia è una cosa seria, non è uno sport” racconta Flavio Codemo.

Anche il figlio di Guido Salvestrin, Luigi, si è appassionato all’addestramento dei segugi: “Non è facile addestrare un segugio a seguire solo una volpe o solo una lepre e a non seguire un capriolo, che ha un odore più forte ma che non si può cacciare con questo metodo, ma col tempo ci si riesce”.

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Per quanto riguarda l’equipaggiamento, ci spiega Davide Serraglio, “la maggior parte dei cacciatori utilizza fucili ad anima liscia per la caccia tradizionale al fagiano o alla lepre oppure anima rigata per la caccia di selezione e per l’eradicazione del cinghiale”. Quest’ultima sezione ha regolamentazioni e filosofie molto diverse, che Qdpnews.it indagherà più avanti in un servizio dedicato.

Anche in paese c’è chi afferma che i cacciatori fanno da custodi al territorio: le loro lunghe passeggiate permettono di individuare alcune problematiche, come gli atti impropri dei visitatori meno rispettosi o i danni dei cinghiali, che negli ultimi tempi con il proprio passaggio hanno deturpato coltivazioni e proprietà private.

“Abbiamo un’età media un po’ alta – spiega Sebastiano Salvestrin – ma abbiamo diversi giovani che si sono già interessati all’attività o che non vedono l’ora di iniziare. È un mestiere antico che sentiamo dentro, nessuno potrà mai togliercelo”.

 

(Fonte: Luca Vecellio © Qdpnews.it).
(Foto: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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