Artsakh, storia di una terra segnata dalle guerre. Baykar Sivazliyan: “Speriamo che i russi portino la pace”

 

Non è la prima volta nella storia che il territorio dell’Artsakh (in armeno, o Nagorno-Karabakh in azero) è stato palcoscenico di guerre cruente e sanguinose.

Tra il febbraio dell’88 e il maggio del ’94 è stato protagonista del violento conflitto tra gli abitanti della regione caucasica, a quasi totale maggioranza etnica armena, sostenuti dalla Repubblica di Armenia, e la Repubblica dell’Azerbaijan.

Al tempo, il Nagorno Karabakh-Artsakh decise con un referendum popolare di volersi dichiarare indipendente dalla neonata Repubblica dell’Azerbaijan, fuoriuscita dall’Urss. Oltretutto analogamente a quanto sarebbe avvenuto per le comunità albanesi della Serbia autodeterminatesi nella indipendente Repubblica del Kosovo, con il beneplacito degli Usa e di tutta la comunità internazionale, Russia esclusa. Cosa che non è avvenuta per la regione caucasica.

Nel ’92 venne quindi proclamata Repubblica senza il consenso del governo azero, che fece ripartire i bombardamenti sull’area. Nel ’94, terminato il conflitto con gli accordi per il cessate il fuoco, si consolidò come repubblica de facto, non riconosciuta da alcuno stato della comunità internazionale ma rimasta sotto l’influenza armena: gli azeri tuttavia continuarono a fare leva sul principio di integrità territoriale per riuscire a recuperare il territorio e per contrastare le ragioni degli armeni che, invece, affermavano il principio di autodeterminazione dei popoli.

Ma chi credeva che la questione si fosse risolta con gli accordi presi negli anni ’90, è stato smentito dalla realtà dei fatti: il 27 settembre 2020, dopo qualche avvisaglia avvenuta già quattro anni prima, è ripartito lo scontro armato.

“Per cercare di preservare la propria vita dalle azioni più atroci della guerra oggi quasi centomila abitanti di Artsakh si sono trasferiti in Armenia, ospiti dei nostri fratelli della capitale – racconta Baykar Sivazliyan, presidente dell’Unione armeni d’Italia e professore di filologia armena alla Statale di Milano – Oltretutto l’esercito azero ha cominciato a usare armi proibite, come bombe al fosforo bianco, bombe a cassetta o bombe a grappolo”.

La civiltà armena, tristemente abituata a grandi dolori come il genocidio del secolo scorso, spesso trascurato dalla storiografia occidentale, sta vivendo quindi un altro periodo di grande sconforto.

L’amarezza nasce dal fatto che questa guerra, deliberatamente rivolta verso le città e le infrastrutture civili, ha causato centinaia di morti tra i cittadini.

“Tra Italia e Armenia il legame è sempre stato profondo e di lunga data. Gli armeni difficilmente nella storia hanno lanciato appelli verso il resto del mondo o organizzato manifestazioni, tuttavia in quest’occasione hanno dovuto ricorrere anche a questi metodi comunicativi per far sentire la propria voce – spiega il professor Sivazliyan – Tra le risposte più celeri a questi appelli c’è stata quella del comune di Asolo e noi siamo profondamente grati per questo segno di vicinanza“.

L’Occidente, dal canto suo, ha spesso trascurato negli ultimi tempi le notizie che giungevano dalla regione caucasica, dal momento che occupato a gestire una pandemia di problematico controllo e a aspettare i risultati delle elezioni americane, che avrebbero potuto confermare o cambiare in modo risonante le sorti non solo degli Stati Uniti, ma dell’intero mondo.

“Alcuni silenzi ci hanno fatto male, non pretendevamo certo che la gente dimenticasse le sue terribili problematiche quotidiane per occuparsi del Nagorno-Karabakh, ma aspettavamo un interesse, anche solo umanamente, un po’ più caldo” racconta il professore, con un leggero rammarico.

Il 10 novembre scorso, però, Armenia e Azerbaijan hanno firmato una tregua, negoziata dalla Russia: se l’esercito azero è riuscito a conquistare gran parte della regione, l’esercito armeno ha dovuto ripiegare su quasi tutti i fronti, complice la decisione del primo ministro Pashinyan, ritenuta umiliante da gran parte degli armeni, di accettare il “cessate il fuoco” negoziato dal presidente russo Putin.

“Sono quarantacinque giorni che la guerra non cessa, – ha concluso Baykar Sivazliyan – speriamo ora che con l’arrivo dei soldati russi arrivi almeno una parvenza di pace, pace imposta, ma pur sempre pace”.

(Fonte: Aurora Riponti © Qdpnews.it).
(Foto e video: Qdpnews.it © Riproduzione riservata).
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