“Per raccontare la storia di Leonida da Possagno bisogna avere un po’ di pazienza. Primo perché con un nome così ti vengono in mente i valorosi eroi delle Termopili. E poi perché se ti chiedono che mestiere faceva Leonida a Possagno mica è facile da rispondere a una domanda così: faceva il benzinaio? Anche! Il tassista? Sì, anche il tassista. Conduceva lo scuolabus? Ma certo, anche quello faceva. E il meccanico? Il meccanico sì! E il trasportatore? E il costruttore e il muratore e persino l’inventore e cos’altro potrei dire?” si apre così il racconto-ricordo del professor Giancarlo Cunial in memoria di Leonida Prosdocimo, una figura chiave nel territorio possagnese.
Cunial racconta: “Faceva di tutto quel genietto di Leonida. Abitava in Sofratta, in una casetta lungo il vicolo dell’Asilo. Suo padre, Francesco, era un giovane senza miseria: nativo di Bigolino, risiedeva a Possagno dopo aver sposato Emma Menegon. All’età di 32 anni, mentre faceva legne nei boschi appena sotto Villa Viola, con la manèra colpì un ordigno che si era conficcato dentro il tronco di una pianta. Come quella bomba fosse finita proprio lì non si è mai capito. Si trattava forse di un residuato della Guerra Granda. Fatto sta che il povero Francesco saltò in aria, il corpo venne sbattuto lontano. Pareva dovesse morire, poi riuscì a sopravvivere ma dovette rinunciare per sempre a vivere senza una gamba e senza un braccio: i medici erano dovuti intervenire con dolorose amputazioni per evitargli la cancrena”.
Suo figlio Leonida aveva allora 12 anni, la guerra era cominciata da pochi mesi e, con un padre in quelle condizioni, non poté che mettersi a lavorare: poco distante da casa, in affitto dai Rossi, aprì un negozietto grande poco più di una scatola di scarpe.
“Dovete sapere che, allora, i negozi non erano solo rivendite. Erano anche laboratori: il casolino, per esempio, non vendeva solo il pane ma se lo faceva anche; lo speziere non vendeva solo medicine ma se le faceva lui, con erbe, essenze e alchimie varie; il scarparo non vendeva solo scarpe ma le aggiustava pure e le adattava al piede del proprietario; il negoziante di stoffe era spesso anche sarto; l’oste vendeva il suo vino ecc. E così anche Leonida in quella botteguccia si ricavò un punto vendita e uno spazio per il laboratorio: produceva e vendeva piccoli fornelletti elettrici per scaldare le vivande, costruiti con la terracotta e la serpentina a spirale”.
Il fratello Italo, il maggiore, stette poco a Possagno: quando si trovò da sposarsi in quel di Cavaso, ben presto emigrò a Genova dove lavorò per tutta la vita nei cantieri navali. Il fratello più giovane, Silvano, sposò una triestina ed emigrò a Gaeta. La sorella Romana aveva cominciato a seguire un negozietto vicino a Fire, in Sant’Albino, ma poi, quando sposò un carabiniere, andò ad abitare a Latina… Nel giro di pochi anni, di tutti i fratelli, Leonida era l’unico che era rimasto a Possagno.
E per sei o sette anni fece fornelletti e altre invenzioni, riparazioni, manutenzioni… Si ingegnava a fare di tutto e a creare cose che facessero migliore la vita. Finita la guerra, avrà avuto forse neanche vent’anni, Leonida fece il grande salto: si comprò un pezzo di terra lungo il viale Canova, in centro al paese, di fronte all’ambulatorio del dottor Peretti.
E lì cominciò a farsi su la casa, perché prima o poi si sarebbe sposato e avrebbe messo su famiglia. E, prima della casa, un laboratorio, un’officina per la riparazione delle biciclette (erano loro le macchine di una volta) e delle prime motorette e vespette.
Erano anni in cui si tirava su di tutto dalle nostre parti, nascevano casette, aggiunte, stanze, superfetazioni, sgabuzzini… Leonida di notte lavorava come muratore, faceva malta e metteva su quadrelli, di giorno invece affidava a Doro Feriglio il cantiere mentre lui riparava carburatori, puliva motori, rimetteva in sesto le candele, allestiva parabrezza, aggiustava i copertoni, faceva i manìni con le camaradarie vecchie “se non sapete cosa sono i manìni non importa, ve lo dico la prossima volta, sennò Leonida mi scappa dalla scena!” scrive Cunial.
Aveva allora un camioncino, un Morris CS8, un autocarro militare leggero utilizzato dagli inglesi durante la seconda Guerra mondiale. E Leonida stesso, mentre affittava a Tilio Fassina l’officina meccanica di moto e biciclette (fino al 1962), si ingegnava a trasformava le macchine militari (i residuati bellici: quanti ce n’erano allora in giro) in camioncini. Per lui era un valzer: tagliava il telaio, aggiungeva il cassone, aggiustava le sospensioni… e il gioco era fatto.
“E poi, modernità assoluta, mise su la pompa di benzina. Fronte strada. All’inizio era un bidone, col rubinetto. Sì avete capito bene: per vendere la benzina nei primi anni Leonida usava un bidone col rubinetto, ché se lo fai adesso ti mettono dentro come pericolo pubblico. Poi provvide a scavare la cisterna davanti a casa col deposito sotterraneo” continua.
La compagnia di rifornimento era all’inizio la Caltex (americana, che aveva come stemma una stella rossa su sfondo bianco). Poi arrivò la benzina della tedesca Aral, un rombo con la scritta bianca su campo azzurro. E, negli ultimi anni di servizio, arrivò la statunitense Mobil…Le cisterne da Leonida erano due: per le moto e i motorini, Leonida aveva comprato un miscelatore che univa benzina all’olio in dosi adeguate a non fare ingrippare i motori delle due ruote.
Di fronte all’officina Leonida, tra una bicicletta e l’altra aveva visto più di qualche volta la bella Gabriella, una ragazza dei Bassi di Fietta che faceva fatti in casa del dottor Peretti. E dai una e dai due, Leonida la saluta, la chiama, le piace. Lei sorride, gli risponde… E non ci è voluto tanto per incontrarsi col fiato: nel febbraio 1952 si sposano: lei ha 18 anni, lui 23.
Sono anni di lavoro, di impegno, di entusiasmo, di ingegnosa fatica… Leonida aveva intuito che la macchina a motore non avrebbe solo sostituito il carretto a trazione animale ma avrebbe cambiato per sempre la società, la mobilità delle persone e delle merci, lo stesso modo di relazionarsi tra le persone.
“Francesco cresce con il motore che canta nelle orecchie, le mani sporche di olio e l’amore per le carrozzerie rambanti e sportive. Nel 1962 Leonida si compra il camion, quello della Lancia, non mi ricordo se fosse un Beta o un Esatau, ma credetemi era un gioiellino di camion che quando passava per strada suonava il clacson perché i più distratti si girassero a guardarlo per una maraviglia” dice.
E con quel camion Leonida comincia a fare il trasportatore di materiali: trasporta di tutto ma soprattutto trasporta materiali laterizi delle fornaci nei vari cantieri nell’Alto Veneto. Nello stesso anno arrivò Giorgio Rigo che si era messo in affitto da Leonida con la sua prima officina. Ci rimarrà fino al 1967, quando Francesco finisce le scuole e Leonida gli dice che era tempo per lui di lavorare. A Francesco non pare vero: prende in mano l’officina e diventa apprendista meccanico, con Claudio Penel e Stefano dei can: sono stati anni giovani e rombanti.
Nel 1972, quando per anche Pieretto Dal Broi apriva la sua prima officina da Leonida, Francesco ha vent’anni e parte per la naja: suo papà lo accompagna (assieme a Ivo del Museo) a prendere il treno a Pederobba. Partono alla volta di Treviso, poi Padova, Rovigo, Ferrara ecc. Devono arrivare a Orte dove li aspetta la coincidenza per l’Aquila. Ma i due giovanotti si addormentano nello scompartimento e arrivano fino a Roma Termini…Con il figlio sotto le armi, Leonida vende il camion e si dedica all’officina meccanica e al distributore in attesa che torni Francesco.
E infatti, nel 1973, quando la naja termina e il figlio torna al lavoro, Leonida compra la Fiat 1100 di Valencia, il vecchio tassista del paese, e con la macchina compra anche la licenza di noleggio con conducente. Da quel momento il padre Leonida seguirà l’attività del noleggio (scuolabus, corriera per gite, taxi ecc) e il figlio Francesco quella dell’officina, delle auto d’epoca, delle auto da corsa… A proposito di auto da corsa: nel 1975, Francesco, con l’amico Italo si costruisce una sua auto da corsa per partecipare ai rally: l’obiettivo era quello di battere il mitico Lino Vardanega.
“E Lino, saputo del progetto ambizioso, andava di sera in officina a dargli consigli su come costruire il motore o su quale soluzione aerodinamica puntare. Voi non ci crederete, ma nel 1979 il duo Francesco Prosdocimo e Italo Serafin vince il campionato italiano di Rally che da tempo era titolo vinto da Lino…”.
In memoria di Leonida Prosdocimo (1929-1999).
(Fonte e foto: Giancarlo Cunial).
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