Prende in mano il microfono, abbandona la sua postazione di relatore e si inoltra tra il pubblico di studenti a stringere la mano e a presentarsi: “Ciao, sono Riccardo, come stai?”.
E’ così che si apre la lectio magistralis tenutasi ieri nell’auditorium del complesso museale di Santa Caterina a Treviso da Riccardo Iacona, tra i più acclamati giornalisti in Italia, autore di reportages storici della tv pubblica italiana, vincitore di numerosi premi per i suoi pezzi e alla carriera, conduttore da 15 anni del programma d’inchiesta Presadiretta.
Un ospite d’eccezione che ha raccontato i ferri del mestiere di giornalista a una sala gremita di studenti delle scuole superiori di Treviso e provincia, insieme a Lisa Iotti, inviata per Presadiretta, autrice di “Iperconnessi”, puntata che ha vinto il Premio Goffredo Parise per il Reportage.
L’appuntamento con Iacona si è inserito all’interno di un ciclo di incontri previsti per i ragazzi partecipanti alla Scuola di reportage di Treviso, nata da un’idea dei coniugi Antonio Barzaghi e Maria Rosaria Nevola, quest’anno alla sua quarta edizione. Per la lezione di Iacona si è scelto di estendere la partecipazione anche ad altre scolaresche della Marca, soprattutto perché, come ha ribadito Iotti in apertura, “quelle che si insegnano qui sono competenze trasversali che servono in qualsiasi tipo di lavoro”.
Un esordio in medias res dritto al cuore del mestiere quello che Iacona fa con la stretta di mano e il “Ciao, come stai?”, e lo spiega: “La prima cosa che un giornalista fa è intessere relazioni. Al centro di ogni storia ci sono le persone. Si parte da una storia locale, piccola, che poi diventa un destino collettivo. Le tue battaglie sono le battaglie di tutti ed è così che costruisci solidarietà, democrazia, prospettive”.
Il racconto di Iacona procede attraverso le domande dei ragazzi e le curiosità sono varie, a partire dall’intelligenza artificiale fino alla sua storia personale. “Non approcciatevi al futuro con ansia. Le cose succedono anche perché non te le aspetti. Io sono figlio del caso, a diciassette anni non sapevo che volevo diventare giornalista. Sono uscito dal Dams (Disciplina delle arti, della musica e dello spettacolo ndr) e poi quell’avvicinamento al mondo del cinema mi è tornato utile in televisione”.
La vicenda personale di Iacona si intreccia a quella del mondo di allora e di altri personaggi che hanno fatto la storia del giornalismo italiano, come Enzo Biagi e Michele Santoro, da cui è “andato a bottega”. C’erano più occasioni una volta? “Può darsi, sicuramente la televisione era in crescita, oggi non è più così”. Però non gli piace dipingere tutto in modo drammatico, “Anche grazie alle nuove tecnologie di cui disponiamo gli spazi per la comunicazione si sono ampliati. E poi, il bisogno di raccontare non morirà mai”.
Impossibile poi non citare le recenti scelte prese all’interno del mondo della televisione, il nuovo assetto della Rai, la migrazione di programmi televisivi ad altre reti: “Una parte di pubblico non vuole conoscere i nuovi programmi e i nuovi arrivati perché riconosce l’atto, riconosce che lì c’è stata una cesura, una sottrazione. L’idea che la politica debba avere il controllo dell’informazione contrasta col nostro essere cittadini”.
Si parla di etica del giornalismo, del modo di rapportarsi coi soggetti intervistati. Iotti sostiene di averlo imparato dal suo grande maestro: “Il coltello dalla parte del manico ce l’abbiamo noi, è una cosa che bisogna sempre ricordare”. Il rischio però è di cadere nella fascinazione del male. E allora, come comportarsi con i “cattivi” della storia? Come si fa a trovare il limite oltre il quale può essere irrispettoso raccontare, per esempio, un dolore? Dove l’immagine diventa eccessiva?
“L’accanimento, che può essere un modo di investigazione giornalistica, è figlio della nostra posizione di potere. C’è un confine molto labile a cui stare attenti. L’immagine famosissima della bambina che corre nuda in Vietnam e che in Rai avevano chiesto di nascondere i genitali ha cambiato la nostra percezione di vedere la guerra. In quel caso l’ha fatta immediatamente smettere. Lì la vera pornografia è la guerra. Non c’era da censurare, è il racconto che poi ci salva, lo rende comprensibile”.
Anche nel giornalismo si procede per tentativi ed errori. Da cosa è bene mettersi in guardia? “Fondamentale è non farsi vincere dal pregiudizio, che non necessariamente deve essere qualcosa di negativo, ma è comunque un giudizio che io do in anticipo e che mi preclude altre risposte. Quando ti innamori del tuo racconto principale il rischio è poi quello di falsificare la realtà, di non considerarla proprio”. Per questo è utile ricorrere a degli antidoti, le cosiddette “procedure ridondanti, quei protocolli che sembrano ridicoli, ma poi ti impediscono l’errore. Questo lavoro di verifica costante va fatto sempre, anche perché su questo si gioca la nostra credibilità e affidabilità come giornalisti”.
Alla fine riavvolge il nastro: “Usciamo nel mondo, torniamo con la nostra saccoccia di sguardi, storie, punti di vista, immagini, ci chiudiamo in un buco dove buttiamo fuori tutto. Durante il montaggio ricostruiamo il viaggio e quel lavoro diventa come un figlio, perché ne hai conosciuto la genesi, lo hai seguito in tutte le sue fasi. Poi una volta che va in onda il prodotto finito lo guardi come se fosse la prima volta. Ma ciò che cambia è che noi siamo diversi: siamo partiti senza sapere nulla e torniamo che ne sappiamo un po’ di più”.
Prima di salutare cita il film “Io, capitano” di Matteo Garrone, per evocare ancora una volta la potenza narrativa e, in questo caso, l’abilità di essere un buon narratore: “Un film straordinario in cui ti affezioni alla vita dei due ragazzini protagonisti così tanto da annullarne le etnie, i chilometri… Grazie alla magia del racconto ci riconosciamo tutti come figli della stessa storia”.
(Autrice: Sofia Sossai. Foto: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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