Una mostra, anzi una grande, ricchissima mostra, per raccontare il momento in cui le donne decidono di conquistarsi il palcoscenico. Non quello dei teatri ma della vita. Protagoniste di un cambio di paradigma i cui effetti, dirompenti, si riverberano ancora oggi. Una donna sempre più al “centro della scena”, al pari se non più dell’uomo, intenta a gestire anche quella parte del modo che pareva riservata solo ai padri, fratelli e mariti.
“Donne in scena”, promossa dal Comune di Treviso, tramite i Musei Civici, sarà a Santa Caterina dal 13 aprile al 28 luglio, con la curatela scientifica di Fabrizio Malachin, che dei Musei trevigiani è il direttore. Riunisce ben 130 dipinti, spesso di grandi dimensioni, accanto ad una folla di abiti e di accessori: borsette, ventagli e cappelli di un’epoca che va tra il tramonto dell’Ottocento, i decenni di una Belle Époque europea, e lo scoppio della Grande Guerra e il primo dopoguerra. Poco meno di mezzo secolo in cui, archiviate le battaglie delle suffragette, le donne si conquistano il diritto ad essere protagoniste. Escono vincitrici dalla battaglia per il voto, per l’affrancamento sociale, per la sicurezza economia, per diritti finalmente pari a quelli dei maschi. E si fanno raffigurare, spesso a grandezza naturale, in abiti scintillanti, sicure di sé, accanto alle automobili che avevano cominciato a guidare e a possedere. Più levrieri, nei ritratti, che bambini, anche questo in anticipo sui tempi a venire. E per farsi ritratte chiamavano gli artisti più in voga: Boldini, Corcos, Milesi, Tito, Erler, Tallone, Grosso, Selvatico, Nono, Beltrame.
Un ritratto eseguito da un grande artista era uno status symbol per la donna rappresentata.
“Una mostra quindi d’arte, ma – anticipa Fabrizio Malachin – con lo sguardo rivolto a comprendere il significato più profondo della femminilità in quest’epoca (come si noterà per certi aspetti molto attuali), fatta di battaglie e sofferenze, ma anche tenerezza e successi: le storie delle protagoniste di alcune opere raccontano questi aspetti. Pensiamo alle vicende biografiche di Wally Toscanini, o della marchesa Luisa Casati, di Lina Cavalieri, Lyda Borelli, Virginia Reiter, Tina di Lorenzo, fino a Eleonora Duse o al personaggio letterario di Margherita Gauthier, solo per citarne alcune.
Nei tre piani del Museo di Santa Caterina, la narrazione prende le mosse da Treviso all’affacciarsi della modernità, con una enorme pianta della città del 1917 di Antonio Monterumici, una vista ad uccello che fotografa le novità urbanistiche, edilizie e architettoniche di un centro che ha avviato il suo rinnovamento (in catalogo due saggi racconteranno cosa significa modernità nel territorio sotto l’aspetto degli investimenti pubblici, della rinascita di teatri, della nascita della nuova borghesia). Assieme alla grande pianta di Treviso, si introducono i tre artisti impegnati nel genere del ritratto femminile e legati alla città: Lino Selvatico, Giulio Ettore Erler, Alberto Martini (di tutti e 3 ricorre nel 2024 l’anniversario della morte, rispettivamente il 100°, 60° e 70°).
Godono, i tre come i loro colleghi italiani, del momento magico del ritratto femminile: la nuova borghesia vuole affermare il ruolo e prestigio raggiunto anche attraverso i ritratti, dei ritratti femminili in particolare, da esibire nelle proprie dimore (a Treviso si afferma prima una borghesia d’importazione e poi famiglie come gli Appiani fautori di un insediamento industriale di successo con la costruzione di case per gli operai e di un teatro, detta ‘appianopoli’).
Così tutti i principali artisti si dedicano al genere, alcuni affermandosi grazie a questa specializzazione, Boldini in primis, ma poi Tallone, Grosso, Selvatico.
Il ritratto è simbolo del successo economico e del prestigio, ma questo cliché borghese si esprime anche nell’abbigliamento e negli accessori alla moda, gli stessi rappresentati nelle opere dei pittori: fin dalla prima sala troveremo così accostamenti tra opere e abiti, con alcune sezioni speciali dedicate a ventagli, cappelli e borsette.
L’emancipazione si manifesta nell’abbigliamento ma anche in alcune attività prima precluse o limitate, come lo studio, o l’andare a cavallo o in bicicletta: una sala è dedicata al ritratto all’amazzone e una alla bicicletta (agli abiti si accompagnano anche i manifesti Salce che pubblicizzano prodotti con l’immagine femminile a cavallo o in bicicletta).
Non manca una sala dedicata agli ‘italiani a Parigi’, quegli artisti che sono veri punti di riferimento per tutti i pittori impegnati nel genere: Boldini, De Nittis, Zandomeneghi, Corcos. Un nucleo significativo di opere di Boldini (16) documentano al meglio il percorso creativo del ferrarese, ma davvero significativo nel senso di una acquisita consapevolezza femminile è Sogni di Corcos e dello stesso artista un inedito Ritratto di due dame che testimonia un forte debito con Manet. Zandomeneghi e De Nittis, con i loro nudi, aprono una sezione intima dove il nudo, di Selvatico in particolare, non ha nulla di volgare ma è piuttosto una esaltazione del bello e della sfera personale (in Selvatico la modella è quasi sempre la moglie Francesca Sperti, come per Martini è la moglie Maria Petringa, e per Erler l’allieva e compagna Irma Simioni).
I grandi saloni al primo piano sono riservati ai grandi ritratti e alle divine.
La prima sala è un omaggio ad Alberto Martini. Dominano i ritratti di Wally Toscanini ed Emanuele di Castelbarco, passando per i ritratti di Maria Martini e altre opere inedite, come i pastelli con Diana e Isotta: opere che raccontano anche l’evoluzione stilistica da un ritorno all’ordine (L’album di Daumier), fino agli esiti surrealisti (La coppia e Sulle Labbra).
Straordinaria la sezione riservata alla marchesa Casati che raduna assieme il capolavoro di Boldini dalla GNAM di Roma ai ritratti parigini di Martini che la ritrae in veste di Cesare Borgia e di arciere selvaggio, fino all’ultimo ritratto surrealista che ne farà l’opitergino traendo ispirazione dalla famosa foto di Man Ray (ben 12 volte la ritrasse Alberto Martini).
La marchesa apre la sezione delle grandi protagoniste, donne che hanno raggiunto il successo nei teatri, nell’emergente arte del cinema e nei varietà. Una rassegna di capolavori da Polymnia di Lavery, alla Reiter di Grosso, Cavalieri di Tallone, fino alla Gauthier di Scomparini.
La narrazione prosegue riservando alcune sale a focus particolari: il rapporto donna/specchio, una simbologia importante che richiama a significati negativi, il doppio, lussuria, superbia, vanità, orgoglio (mito di Narciso) ma anche positivi, verità, eternità, intelligenza, trasparenza; il ritratto femminile accompagnato da un cane, simbolo di fedeltà e amicizia, o da una scimmietta, simbolo negativo ma da leggersi come status symbol della ricchezza della famiglia che spesso teneva animali esotici da esibire in occasioni di ricevimenti come ‘meraviglia’.
Una ulteriore sala è riservata a quattro grandi ritratti inediti di Lino Selvatico, restaurati per l’occasione, raffigurano i componenti di una famiglia borghese lombarda: il capofamiglia, Roberto Frigerio, è messo accanto a un ritratto maschile di Boldini.
L’ultima saletta ci riporta al significato ultimo della rassegna. Chiude infatti idealmente la rassegna l’afroamericana Joséphine Baker (scultura del 1930 ca. di Eugenio Perocco, come pure in mostra è dello stesso artista la scultura di Eleonora Duse – si tratta di uno scultore trevigiano fino ad oggi completamente sconosciuto e di cui si presentano per la prima volta due opere), cantante e danzatrice naturalizzata francese, comunemente considerata la prima celebrità di colore: un simbolo che abbiamo voluto inserire al termine per indicare che il percorso per la completa emancipazione.
Dopo gli esordi negli Stati Uniti, la Baker si trasferì a Parigi dove raggiunse fama ed enorme successo, sugellato all’ottenimento della nazionalità francese (1937) e, a seguito dell’impegno nella Resistenza, della Legion d’Onore, la più alta onorificenza dello Stato francese. Usò la sua popolarità nella lotta contro il razzismo e a favore dell’emancipazione delle minoranze: fu al fianco di Martin Luther King durante la famosa marcia per il lavoro e la libertà del 1963 a Washington.
Questa presenza suggella un racconto affascinante nel bel mondo tra Otto e Novecento, ma profondamente attuale. Un mondo in equilibrio tra tradizione e progresso in cui la donna conquista alla modernità spazi di libertà e indipendenza.
(Foto: archivio Qdpnews.it).
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