I giovani e il “sì” in chiesa fra paure e pressione sociale. Don Pesce: “Alcuni non lo dicono agli amici” 

Don Francesco Pesce

Un tempo, almeno in ambito cattolico, sposarsi in chiesa apparteneva al corso naturale della vita di un individuo, e c’era chi si sposava con fede convinta e chi invece lo faceva un po’ per convenzione. 

Oggi al contrario convolare a nozze con rito religioso, almeno agli occhi delle nuove generazioni, appare come una scelta “fuori moda”. Ma se è vero che in generale ci si sposa di meno, è altrettanto vero che quei giovani che decidono di suggellare il proprio amore davanti all’altare lo fanno con maggiore consapevolezza del significato spirituale che il sacramento incarna.

Lo spiega bene don Francesco Pesce, direttore del Centro della Famiglia di Treviso che nei giorni scorsi ha condiviso alcuni dati significativi sul numero di matrimoni nella Marca e che fra le molte attività rivolte alle famiglie organizza i percorsi preparatori per aspiranti coniugi. Dal 2021 al 2022 sono state 133 le coppie che vi hanno preso parte a cui, da quest’anno, se ne aggiungono altre 12 che da febbraio frequentano il ciclo di incontri invernale.

In questo spazio di ascolto e condivisione emergono le speranze, ma anche le paure di coppie innamorate che decidono di camminare l’uno accanto all’altra in un presente complesso. 

Don Pesce, chi partecipa a questi corsi? 

“Vi partecipano principalmente giovani coppie che in un contesto relazionale sempre più fragile hanno davvero voglia di fare sul serio e per cui il matrimonio religioso è una scelta voluta e consapevole, non dettata dalla tradizione”. 

Quali sono le paure ricorrenti manifestate da queste coppie in vista del matrimonio?

“La prima paura è la solitudine, intesa come il non avere amici che fanno il tifo per te e che non ti accettano per la tua scelta. Non è raro ascoltare le storie di coppie che non comunicano agli amici o ai colleghi di essersi sposati, e se lo fanno è già a cose fatte. L’altro timore che manifestano è quello di non farcela economicamente. A preoccupare è il precariato, un susseguirsi di contratti di lavoro a tempo determinato che dà poche certezze. Alla luce di queste paure la scelta di sposarsi oggi è un vero atto controcorrente. Sta anche qui il valore del percorso prematrimoniale: è uno spazio dove si creano amicizie e legami di solidarietà fra coppie, da cui si esce rassicurati, meno soli, e forti di un piccolo ‘kit personale’ per vivere al meglio la relazione”.

Come si svolgono questi corsi?  

“Il corso, di quattro mesi, è tenuto da coppie di volontari formati (alla Scuola di Formazione Familiare interna al Centro ndr) ed è pensato per dare degli spunti, dei piccoli ‘lavori per casa’ il cui esito poi si condivide in gruppo. Il presupposto di partenza è l’originalità di ciascuna coppia. Nella prima parte si riflette sulla progettualità, sui valori, sui desideri e sull’idea di famiglia che contraddistingue i futuri coniugi. Ma si lavora anche su molti altri aspetti, dall’accettazione reciproca al superamento dei conflitti. La seconda parte è dedicata ai contesti in cui la coppia vive, quello socioculturale, lavorativo, civile istituzionale, e chiaramente non manca la riflessione sulla dimensione spirituale del matrimonio”. 

Poi c’è quella sui figli. Una famiglia senza figli come è vista dalla Chiesa? 

“Un amore con la “porta chiusa” diventa sterile e linea generale il matrimonio per la Chiesa implica la disponibilità ad avere un figlio. Ma per rispondere più ampiamente a questa domanda cito Papa Francesco. Nella sua definizione di “amore fecondo” non si riferisce solo alla fertilità, ma alla capacità di una coppia di essere generativa, creativa e di incidere nel contesto in cui è inserita. Una coppia può essere generativa in tanti modi, e avere dei figli non è l’unico. Anche sull’approccio ai figli ci sarebbe molto da dire. Talvolta i bambini vengono vissuti come un oggetto, come qualcosa che ‘aggiusta’ la coppia. Ma non è così”. 

Le coppie temono il precariato, questo incide molto anche sulla prospettiva di avere figli. 

“Oggi una coppia che vuole avere un figlio non è sostenuta abbastanza. Certo, sono stati fatti dei passi avanti, ma serve un cambio di passo serio sul fronte delle politiche famigliari. Potremmo prendere d’esempio altri Paesi dove l’equivalente del nostro assegno unico e la possibilità di lavorare part-time sono la normalità. In Italia abbiamo il vincolo dell’Isee, già solo richiederlo è molto complesso. Ma serve anche un cambio a livello culturale per tornare a pensare ai figli come ad una cosa bella”. 

(Foto: Centro della Famiglia Treviso). 
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