Mercurio Bua, l’uomo che si rubò la tomba

Mercurio Bua ritratto da Lorenzo Lotto

Qualche anno fa la scoperta della tomba di uno spietato criminale all’interno di un’importante basilica romana destò incredulità e sconcerto nell’opinione pubblica. Non è una novità che anche le anime più tormentate e avvezze alla violenza si dimostrino sensibili nei confronti del sacro e poiché raramente c’è qualcosa di nuovo sotto il sole, qualcosa di simile accadde cinque secoli fa a Treviso.

Protagonista di questa storia è Mercurio Bua, un soldato di ventura di origine levantina, responsabile di feroci scorribande in tutta Europa, ma talmente “devoto” da pretendere di essere sepolto in una chiesa imponente, con tutti gli onori e in un sarcofago razziato in uno dei suoi tanti saccheggi.

Maurizio Bua Spata nacque in Morea, l’attuale Peloponneso, nel 1478 da una famiglia aristocratica di origine albanese. Vocato per il mestiere delle armi, ancora ragazzo si trasferì a Venezia ove prese il nome di Mercurio. Come molti altri connazionali giunti da terre greche e balcaniche, militò nei ranghi degli stradioti, mercenari conosciuti per essere leali soltanto a chi, pagandone lautamente i servigi, si avvaleva della loro proverbiale brutalità. All’epoca in cui non tutti gli stati disponevano di eserciti permanenti le compagnie ventura decidevano spesso le sorti dei conflitti. Ciò valeva a maggior ragione per una realtà come quella della Serenissima Repubblica, militarmente più orientata verso le operazioni di mare che quelle di terra. Armati di spade, mazze e balestre, seguiti da interi clan familiari e abbigliati all’uso orientale (a Venezia erano detti “cappelletti” per via del piccolo copricapo scarlatto), gli stradioti combattevano a cavallo alternando improvvise incursioni con repentine ritirate dal campo di battaglia. Una tattica efficace per disorientare l’avversario e scompaginarne i ranghi.

A capo dei suoi fedeli stradioti Mercurio Bua guerreggiò un po’ ovunque, in Italia e all’estero, sempre pronto a soddisfare le pretese del miglior offerente. Fedele al motto pecunia non olet (il denaro non ha odore) fu alleato dei francesi contro gli spagnoli, “fedele” agli Asburgo, al soldo di una Venezia che non esitò a rinnegare compiendo rapaci incursioni sul Montello, a Nervesa, Castelfranco e Bassano. Un episodio emblematico, forse più di altri, rende l’idea della sua personalità: sfidato a duello da un giovane nobiluomo deciso a difendere l’onore di Mantova e Ferrara, temendo il confronto con un avversario fisicamente prestante preferì eliminarlo in un agguato, spalleggiato da un manipolo di stradioti.

Al culmine di una impressionante escalation di scontri, saccheggi e violenze in terra veneta, il 27 agosto 1511 Mercurio Bua rivolse le proprie attenzioni al Castelnuovo di Quero, una rocca trecentesca sulle sponde del Piave adibita a sbarramento doganale e apprestamento militare di circostanza. L’indomito capitano di ventura, alla testa di tremila fanti, secondo alcune cronache superò il fiume a nuoto con indosso l’armatura. Una volta conquistata la fortezza, difesa da soli trecento uomini, fece prigioniero Girolamo Emiliani, un patrizio veneziano della stirpe dei Miani che all’epoca fungeva da reggente del castello.

E fu proprio a Quero, nella minuscola frazione a presidio della piana feltrina, che si incrociarono le vite di Mercurio e Girolamo; due uomini assai diversi fra loro, ma che il destino, bizzarro e imprevedibile, farà ritrovare qualche decina d’anni più tardi in tutt’altro contesto.

Girolamo Miani, dopo un mese di carcere guadagnò la libertà; non è chiaro se riuscì a fuggire o se qualcuno pagò un riscatto. Secondo la tradizione agiografica decisiva fu l’intercessione della Madonna invocata durante la prigionia. Per onorare la grazia ricevuta Girolamo abbandonò la vita dissoluta per dedicarsi alla carità e all’educazione dei poveri, gettando le basi del futuro Ordine dei Padri Somaschi; e come ex voto portò dinanzi al ritratto della Madonna Grande di Treviso le catene e la palla di marmo che gli avevano stretto ai polsi, al collo e alle caviglie i terribili stradioti.

Mercurio Bua, dal canto suo, proseguì le proprie lucrose guerre guadagnando, oltre al denaro, il titolo di conte e la reputazione di salvatore del re di Francia. Ritornato con disinvoltura al soldo della Serenissima, incurante di chi ne criticava l’avidità, fu nominato cavaliere di San Marco ma nel 1521 subì una cocente sconfitta in Emilia per mano del leggendario condottiero mediceo Giovanni delle Bande Nere immortalato da Ermanno Olmi nel film “Il mestiere delle armi”. Vinto sul campo di battaglia, anagraficamente (per l’epoca) sulla via del tramonto, il cinquantatreenne comandante degli stradioti si ritirò a Treviso, ove continuò a covare disegni bellicosi per fortuna mai attuati. Afflitto dalla gotta, la malattia di chi poteva ingozzarsi di carne, Mercurio Bua rese l’anima a Dio nell’anno 1542. Come egli stesso aveva ordinato, il suo corpo fu collocato in un pregevole sarcofago in marmo, opera del Bambaia, trafugato dallo stesso Mercurio qualche anno prima durante il sacco di Pavia e realizzato per accogliere le spoglie di un professore universitario.

Per uno scherzo del destino, la chiesa prescelta dal capitano di ventura fu la medesima nella quale Girolamo Miani aveva deposto le proprie catene, la basilica di Santa Fosca in Santa Maria Maggiore. Ancora oggi, ai piedi dell’affresco della “Madona Granda”, accanto al magnifico sepolcro di Mercurio Bua e all’imponente epigrafe che ne riassume lo strabiliante cursus honorum, si trovano due cassettine con i ferri e la palla marmorea di san Girolamo, canonizzato nel 1767 e proclamato da Pio XI, nel 1928, “Patrono universale degli orfani e della gioventù abbandonata“.

Osservando quegli umili contenitori, anche a distanza di cinquecento anni, si coglie il profondo significato di quelle sinistre catene, capaci di oscurare la rapace opulenza di Mercurio e far scoccare la scintilla della fede nel cuore di Girolamo.  

(Foto: Wikipedia).
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