Piero Fassino eletto alla Camera in Veneto per il Pd. L’ex ministro: “Sì al federalismo cooperativo. L’autonomia pensata da Zaia è un centralismo regionale”

Piero Fassino, Giovanni Zorzi e altri militanti del PD assistono ai primi risultati elettorali

Sguardo fisso sul telo del proiettore – dove venivano trasmessi i dati degli scrutini in corso -distolto giusto il tempo di alzarsi per rispondere a qualche telefonata. Così l’ex ministro della giustizia e del commercio estero Piero Fassino ha trascorso le ore successive alle chiusure delle urne nella sede provinciale del Partito Democratico, al terzo piano del Centro Eden in via Castagnole a Treviso.

Insieme a lui il segretario provinciale del PD Giovanni Zorzi e alcuni militanti. Poche parole all’interno della sede e poca voglia di parlare con i cronisti. “Aspettiamo i risultati ufficiali” dicono. Poco dopo le 18.30 di ieri lunedì sono gli stessi vertici provinciali del Partito Democratico a confermare che Fassino, candidato per la Camera dei Deputati nel collegio plurinominale Veneto 1 – 01, sarà un deputato della XIX legislatura. Piero Fassino, 70 anni,  è entrato a far parte per la prima volta alla Camera nel 1994 ed è stato rieletto in tutte le legislature fino al 2011, quando per 5 anni è stato sindaco di Torino, e di nuovo eletto al Parlamento nel 2018. Così, fresco di elezione, ha analizzato il voto degli italiani.

Onorevole Fassino, il centrodestra si impone a livello nazionale e in Veneto fa il “pigliatutto” all’uninominale: una sua analisi sul voto? Il Pd ha qualcosa da rimproverarsi?

Il Pd ha provato sino all’ultimo ad essere il perno di una alleanza larga. E se si sommano i risultati ottenuti da PD, 5 stelle, Azione e Verdi risulta che un campo progressista largo avrebbe superato di quasi 8 punti il centro destra. Anche solo l’alleanza PD – Azione avrebbe consentito di conquistare molti seggi, impedendo alla destra di avere la maggioranza assoluta di questi. Quindi se c’è qualcuno che deve rimproverare i propri comportamenti sono le forze che hanno preferito una corsa solitaria. Il campo largo non c’è perché Conte e Calenda hanno preferito rimanere minoritari, rivendicando improbabili successi elettorali che li condannano già all’irrilevanza. Si poteva governare, hanno preferito l’opposizione.

Il nuovo Parlamento potrebbe essere chiamato a decidere riforme importanti: come vede questa prospettiva dopo l’ampia vittoria del centrodestra?

La Costituzione è la carta fondamentale della Repubblica e ne regola gli assetti istituzionali. Se si vogliono introdurre cambiamenti sostanziali non si può farlo a colpi di maggioranza. Ogni tentativo del passato di riformare la Costituzione solo dalla maggioranza in carica è stato bocciato dagli elettori. Ci ha provato Berlusconi. Ci ha provato Renzi. Certe riforme o si fanno con il consenso più ampio o nascono monche. Questo agli elettori non sfugge.

Durante la campagna elettorale lei ha incontrato diversi imprenditori della zona di Conegliano, Vittorio Veneto e Valdobbiadene: quali richieste le hanno rivolto e come intende il PD, sia pure da prossima forza di opposizione, rispondere?

Meno burocrazia, maggiore facilità di assumere, investimenti sulla formazione del personale, meno tasse sul lavoro. Gli imprenditori del Veneto non cercano scorciatoie, né agevolazioni. Lavorano ogni giorno per garantire lavoro ai dipendenti, lottano contro una burocrazia asfissiante e per una competitività sui mercati internazionali, nonostante la concorrenza di grandi colossi esteri, il caro energia e le conseguenze della guerra. Cercano esattamente ciò che Draghi aveva assicurato e che Conte e Salvini non hanno saputo garantire: stabilità e credibilità nei mercati esteri.

Lei si è detto favorevole al federalismo. Come lo intende e quali sono i punti in comune con quanto chiede il Veneto?

Ho un’idea concreta dell’autonomia: si trasferiscono poteri, risorse, competenze al livello istituzionale che appare più adeguato a gestire un problema. Si chiama “principio di sussidiarietà”. Per cui autonomia non è solo trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni. L’autonomia pensata da Zaia è un centralismo regionale. Serve un’autonomia che riconosca risorse e competenze anche ai Comuni, che sono il primo fronte di contatto con i cittadini. Non c’è autonomia senza poteri e risorse ai sindaci. Non c’è autonomia se ad un centralismo romanocentrico se ne sostituisce uno Zaiacentrico. Cambia il baricentro, non gli effetti. Serve un federalismo cooperativo vero, un federalismo che preveda poteri diffusi a chi, come i sindaci, ogni giorno si rapportano con i cittadini e con le loro domande.

Lei ha attraversato molte stagioni della politica italiana. Ci farebbe una breve analisi del momento storico che stiamo attraversando e come questo si riflette sulle scelte degli italiani?

Beh, è una domanda che richiederebbe una risposta non breve. In sintesi però si può riassumere così. Da quindici anni viviamo costantemente delle criticità: prima la crisi economica 2008/2015, poi il Covid, oggi la guerra e le sue conseguenze. Tutto ciò ha determinato in molti uno stato di preoccupazione e ansia che spinge a ricercare rassicurazioni immediate. E se le risposte non sono istantanee allora si ricerca la rassicurazione altrove. Dovrebbe far riflettere il fenomeno delle migrazioni elettorali che ha visto nel 2013 i 5 stelle al 25%, un anno dopo il PD al 40%, poi nel 2018 i 5 Stelle al 32%, un anno dopo la Lega al 34% e oggi quel voto si sposta su Fratelli d’Italia. Il che pone alla politica una questione di fondo: la sua capacità di rispondere in modo tempestivo e veloce alle domande dei cittadini. Se non lo fa, i cittadini o si astengono o ogni volta si rivolgono a qualche altra forza politica.

(Foto: archivio Qdpnews.it).
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