Plinio Vanini, presidente di Autotorino Spa, racconta i valori per il successo e la visione del futuro del più grande concessionario italiano

Proviene dal cuore delle Alpi occidentali della penisola, con duemila collaboratori e un fatturato di quasi un miliardo e mezzo di euro, il Gruppo di concessionarie Autotorino, radicato oggi anche in Veneto. 62 le sedi in cinque regioni, per un colosso multibrand ufficiale che riesce ancora a intrattenere un peculiare rapporto con i territori che va a coprire.

Con 56mila vetture vendute nel 2021 per 22 marchi automobilistici, Autotorino non nasconde, dietro al suo successo, delle origini umili e al contempo una visione limpida per il domani del settore, intrecciando nel suo percorso i valori che Plinio Vanini, presidente, ci racconta.

Incontriamo l’imprenditore alla sede di Villorba, per l’intervista, e poi in quella di Belluno, per un evento di celebrazione dei primi cinquant’anni di Bmw M, ovvero della serie sportiva del marchio. Nell’area dell’Alta Marca, il Gruppo è presente anche a Susegana. Appellandoci a lui con il titolo di dottore per la prima domanda, veniamo interrotti per una precisazione: “Avrei voluto fare il veterinario nella vita, ma non ci sono riuscito”. È interessante sapere che il presidente Vanini, oltre a guidare il gruppo, è titolare di “La Florida”, un’azienda agricola in Valtellina, frutto della sua passione.

Quella di Autotorino è stata un’espansione graduale, potremmo dire da ovest verso est: qual è stata l’esperienza nell’approdare in queste zone e il dialogo con realtà più piccole?

L’esperienza del nord est per noi è stata assolutamente positiva. In origine noi proveniamo da Sondrio, un territorio piccolo ma con una comunità laboriosa, dove più o meno si conoscono tra loro: questo è stato un vantaggio nell’intraprendere un modello di relazione con il cliente che ci sta dando grandi soddisfazioni, ma anche con chi lavora con noi. Chiaramente ogni giorno bisogna conquistare il proprio diritto di esistere in azienda – io per primo – ma viviamo in un periodo di grandi cambiamenti e gli stimoli di certo non mancano.

Dopo l’impatto della crisi, oggi esistono aziende virtuali che vendono e acquistano auto con una filosofia quasi da e-commerce.  In questo scenario, secondo lei quale può essere il futuro del concessionario?

Parliamo di futuro, ma il futuro è oggi. Durante la pandemia, il cliente ha utilizzato con più intensità gli strumenti e le tecnologie a disposizione per potersi informare e poter contattare la concessionaria: la grande conferma è che l’automobile è un bene complesso, al quale comunque affidi la tua stessa vita nel momento in cui ti trasporta. Questo continua a determinare che il cliente voglia approfondire, venendo in concessionaria, e che necessita di una relazione umana. Noi stiamo lavorando e continueremo a lavorare su un approccio che non si limita alla vendita, ma come “facilitatore di mobilità”. Oggi la sfida è quella di essere un’azienda “omni-channel”, con la capacità di essere presente. Una volta si trattava di essere più o meno nella piazza del mercato, poi si è finiti ai grandi centri commerciali e oggi nel mondo della tecnologia. Noi affrontiamo questa grande sfida con diversi team che si occupano di sviluppo e innovazione, marketing, CRM, formazione ed elaborazione di algoritmi; ciò per trovare e affinare percorsi attraverso le tecnologie che facilitino la vita al cliente e ci permettano di creare una relazione sempre più efficace e mirata con lui”.

Ecco, proprio su questo tema, permetta una domanda di colore: un tempo acquistare un’auto era un’esperienza di festa per tutta la famiglia. Un vero evento. La gente esce ancora felice dal concessionario? O non ci si accontenta più? 

In alcuni casi sì, in altri casi meno: all’inizio, l’acquisto dell’automobile era davvero un evento, ora per determinate persone ricade quasi in una routine funzionale. Veniamo da anni e anni e anni in cui l’economia ha consentito a tutti di poter acquistare un’automobile. Quindi quando non è più la prima volta, non è la seconda, ma la sesta volta, l’emozione viene un po’ meno e subentrano fattori più razionali. Sta a noi trovare la chiave per continuare a emozionare il cliente, individuando quelle che sono le esigenze del cliente. Quando dicevo “facilitatori di mobilità” intendevo questo. La nostra sconfitta avviene quando consigliamo un prodotto che non risponde alle esigenze del cliente. Proprio per garantire un approccio uniforme ed efficace al cliente abbiamo un team di formazione composto da venti specialisti. È necessario: abbiamo team di consulenti commerciali che superano ormai i cinquecento e una comunità di oltre duemila persone che lavorano da Torino a Trieste, passando per l’Emilia, in 62 filiali.

In questo contesto di formazione rientra anche il progetto “Evolution”, verso la transizione all’elettrico. Di cosa si tratta?

Per noi è una pietra miliare. Il cambiamento non lo vogliamo subire, per essere chiari: il nostro approccio è sempre stato e continuerà a essere quello di protagonisti della contemporaneità e, anzi, a volte, provare ad essere innovatori. Un approfondimento di questi temi nella formazione ci serve per dare un consiglio corretto al cliente e le informazioni necessarie per fargli fare una scelta di mobilità. Alla base abbiamo scelto una formazione ‘sul campo’ perché, come dicevamo prima, vogliamo trasmettere al pubblico che entra nei nostri showroom sensazioni ed emozioni, meglio se vissute in prima persona, e non solo nozioni.

Abbiamo letto di lei che possiede un’azienda agricola a cui tiene particolarmente. Trova delle analogie tra le due attività che porta avanti?

Guardi, io nasco da un mondo contadino: dalla parte di mamma ci si occupava di allevamento di vacche da latte e mio papà aveva un piccolo salone di rivendita di automobili. Io volevo fare il veterinario ma mio padre è morto quando avevo 22 anni e sostanzialmente ho dovuto interrompere gli studi e rilevare l’azienda. Eravamo in due, io e un’impiegata, poi  le cose sono andate così.: Quando hai una relazione con il mondo dell’agricoltura, che ha radici profonde, è difficile pensare di uscirne. Ormai fa parte del tuo modo di essere ed è anche un po’ la tua forza. Continuo a lavorarci e a crederci: è un mondo che mi appassiona, mi insegna tanto, mai abbastanza.

Permetta se insisto ancora sulla domanda: quali valori crede possano essere trasmessi dal settore dell’agricoltura a quello commerciale?

I valori che riguardano l’approccio al lavoro, soprattutto. Il divertirti in quello che fai: nel senso che in agricoltura non ci sono orari e l’orario è dettato più o meno dal fatto che ci sia la luce o che si arrivi al tramonto. Purtroppo, una nota che non mi piace e continua a piacermi sempre di meno è che in questo paese stiamo andando verso un approccio al lavoro che non è quello corretto. Quante ore, quanti minuti, quanti soldi: credo che il tempo vada speso facendo quello che ti piace e che il resto, compresi i risultati, diventino una conseguenza, ma bisogna farlo mettendosi in discussione ogni giorno e continuare a sfidarsi; altrimenti manca il sale della vita. E le sconfitte vanno portate a casa e capitalizzate: qui in azienda, gli errori li mettiamo spesso a fattor comune perché da quelli si può imparare.

E dei giovani e lavoro, cosa ne pensa?

Le racconto questo: a dieci anni andavo in Alpeggio, isolato sulle montagne, e se andava bene incontravo trenta persone in tutta l’estate. Alla fine della stagione ti regalavano una forma di formaggio, dopo una stagione dura, in cui imparavi a metabolizzare critiche, rimproveri, torti, ma che ti faceva imparare un mestiere complesso, come quello dell’alpeggiatore e del ‘casaro’. Ora ci sono filosofie, come quella del reddito di cittadinanza, che insegnano ai giovani che è possibile percepire denaro senza fare nulla e le persone che hanno voglia di mettersi in discussione fanno fatica a emergere nella massa. E a quelle persone, un lavoro come questo, dà grandi opportunità di occupazione e di formazione personale”.

(Foto e video: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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