Furono tantissime le donne che lavorarono negli stabilimenti della Sigismondo Piva a Valdobbiadene: Dolores Rebuli entrò in fabbrica nel 1941, giovanissima, come semplice operaia.
Così ricorda il giorno della sua assunzione: “Eravamo diverse ragazzine, sui 14 anni, fuori dalla porta della direzione. Io con le trecce, fermate con un elastico, scarpe di pezza, vestito scuro e occhi impauriti. Tremai alla vista del capo del personale, che chiamo subito tra di me Don Rodrigo”.
All’apice della sua carriera, dopo aver imparato a “scrivere a macchina durante l’intervallo del mezzogiorno”, Dolores venne impiegata all’ufficio della direzione e, più avanti, scrisse un diario di lavoro, nel tentativo di mantenere viva la memorie attorno a una delle più importanti realtà industriali della provincia di Treviso.
Quando Dolores venne assunta, tra filanda, filatoio e calzificio, alla “Piva”, lavoravano all’incirca un migliaio di persone: “Al termine del turno – ricorda – la strada si riempiva di donne che, quasi tutte a piedi, qualcuna in bicicletta, tornavano a casa ridendo e chiacchierando”.
Inizialmente il suo compito era quello di fare dei fiocchetti con della seta grossa per unire due calze. “Certe ragazze facevano fatica a raggiungere la quota fissata, ma ci si aiutava in segreto” spiega in un passaggio.
Il lavoro era spesso accompagnato dal canto, anche al reparto spedizioni: “Correvo da una parte all’altra portando gli ordini. Essendo la più giovane dovevo in qualche modo servire le più anziane che non si potevano muovere dal loro posto. Eravamo contente di fare gli straordinari, così, quando si riceveva la paga, si andava a prendere un gelato in piazza. La maggior parte di noi mangiava alla mensa e, subito dopo, si lavorava all’uncinetto, chiacchierando. Era bello”.
Gli anni della seconda Guerra mondiale furono difficili. Nel 1944 la produzione della “Piva” rallentò, ma non cessò completamente. Dolores si sentì fortunata di essere in buona salute e, nel suo diario, scrisse: “Quando suonava l’allarme antiaereo bisognava allontanarsi dallo stabilimento e andare nei campi, che d’inverno erano ricoperti di neve. Non mi sono mai ammalata, nonostante il freddo. La fabbrica era controllata dal Comando tedesco, gli ufficiali arrivavano seri e silenziosi per andarsene, sempre, con camion carichi di merce”.
Con la fine del conflitto nel settore del tessile arrivò il nylon a sostituire la seta e a decretare la fine di un’era e della filanda. Vennero cambiate le macchine in linea per le calze con la cucitura e sostituite con quelle circolari, più veloci: “Fu come passare – afferma Dolores – da un’utilitaria a una Ferrari”.
Ma il progresso era inarrestabile anche fra gli operai. Qualcuno iniziò a venire in fabbrica in motocicletta: “Il primo fu uno di Combai che attraversò il cortile facendo accorrere tutti. Fu poi la volta delle Topolino e, in poco tempo, in cortile fu necessario mettere un semaforo all’uscita. Addio alle chiacchierate e alle canzoni per strada. Ogni medaglia ha il suo rovescio”.
Dolores Rebuli assisterà al declino e sarà testimone della chiusura definitiva dello stabilimento dove si era sempre sentita in famiglia: “Nessuno immaginava che un’industria che da più di cento anni dava lavoro a tante persone finisse così miseramente”.
(Foto: Terra e Genio – FAST – Foto Archivio Storico Trevigiano della Provincia di Treviso).
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