Le somme erogate per prestazioni professionali rese possono essere validamente dedotte, nel rispetto dell’economicità delle componenti che si intende imputare in diminuzione del reddito.
Se l’operazione economica realizzata nell’esercizio di una attività d’impresa non comporta alcun beneficio per il soggetto che sostiene il costo; e qualora in aggiunta si verifichi un evidente scollamento tra prestazione ricevuta e attività produttiva, sicuramente la componente di costo non può dirsi inerente. Nel momento in cui tale dissociazione si verifichi per i compensi erogati a favore di un socio e se in realtà tali erogazioni siano dirette ad attuare una distribuzione indiretta di utili, ogni ulteriore dubbio interpretativo deve ritenersi escluso. La ricostruzione dii tali principi emerge da una recentissima ordinanza (n. 3414/2020) della Corte di Cassazione.
Occorre rammentare che, in linea di principio, il canone dell’inerenza dei costi esprime di norma una correlazione tra costi e attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi di conseguenza in un giudizio che assume i tratti della verifica della consistenza qualitativa delle spese prese in esame, prescindendo in prima istanza da stime di carattere quantitativo.
Tale conclusione, espressione di una parte della giurisprudenza, ha tuttavia diffusamente condotto all’equivoco interpretativo secondo cui sarebbe possibile relegare come fattore marginale e secondario il giudizio quantitativo. È vero e non si rinnega che l’inerenza vada rapportata all’attività d’impresa intesa nella sua globalità strutturale e funzionale. Per contro, l’oggetto del giudizio di congruità integra la relazione tra lo specifico atto d’acquisto utilmente valutabile, con la deduzione che dell’acquisto si opera. Il vaglio consiste essenzialmente in un giudizio di proporzionalità tra il quantum erogato (la spesa) e il vantaggio conseguito o anche solo successivamente fruibile.
Seppur riconoscendo una certa prevalenza all’elemento qualitativo, non si può attribuire al fattore quantitativo una mera marginalità e ciò per le ragioni di seguito esposte, le quali rispondono indubbiamente a una corretta lettura interpretativa, basata su un riconoscibilissimo substrato logico-giuridico. La ricostruzione è alquanto semplificata.
Qual è la ratio che connota lo svolgimento di una attività d’impresa? La risposta è scontata: indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi e una massimizzazione dei profitti. Da tale assunto è quindi ragionevolmente dedotto un elemento alla base dei rilievi del Fisco, secondo cui le condotte improntate all’eccessività di componenti negativi (o anche all’immotivata compressione di componenti positivi) può essere ragionevolmente e logicamente assunto quale indice rivelatore di un occultamento di capacità contributiva, che non potrebbe trovare nessun’altra giustificazione nell’esercizio dell’attività d’impresa. Va bene quindi che i costi devono riguardare l’attività d’impresa, ma attenzione: la loro proporzionalità deve sempre essere presa in considerazione.
Autore: Antonino Marino