Li chiamavano “gli azzurri”: storia del reparto alcologia di Auronzo, chiuso per mancanza di medici. De Sandre: “Noi siamo fermi, ma l’alcol lavora”

Il dottor Alfio De Sandre
Il dottor Alfio De Sandre

In paese li chiamavano “gli azzurri”, perché si diceva fossero “in ritiro pre-campionato” come la Nazionale. Venivano da ogni parte d’Italia e alcuni di loro non avevano mai visto la neve. Dal 1983 fino alla chiusura del Reparto Alcologia di Auronzo di Cadore, durante la pandemia, gli ospiti sono stati almeno diecimila.

L’intervista al dottor Alfio De Sandre

Per loro, l’ultimo piano dell’ospedale cadorino rappresentava il punto di partenza, dove intraprendere un sentiero di responsabilizzazione capace di salvar loro la vita, in tutti i sensi. Assieme a chi soffriva di questa dipendenza c’erano anche le famiglie, che per il tempo necessario pazientavano soggiornando in paese e facendo parte della vita della comunità.

È stata un’esperienza profonda quella dello staff che vi ha lavorato, talmente profonda che la chiusura del reparto – dovuta alla mancanza di personale sanitario – traccia i margini di una ferita non solo a livello locale, ma anche per tutte le realtà associazionistiche che si occupano di questo problema. A visitare il reparto – che nel tempo si è distinto per i risultati – erano state anche delle realtà internazionali, dalla Norvegia e dal Cile, per poi replicare il modello nei loro paesi.

Il dottor Alfio De Sandre, che è stato il primario del reparto per decenni, racconta ai nostri microfoni la storia di questo reparto, con nostalgia per tutto ciò che è stata la sua esperienza umana e professionale. Lo intervistiamo nel corridoio del reparto, che è stato di recente ristrutturato e brilla di desolazione.

Dottore, com’è nato questo reparto?

Questo reparto è nato nel 1983 qui ad Auronzo, su iniziativa del dottor Mongillo, un personaggio che definirei leggendario nella storia della sanità cadorina. Decise di aprire un’area del reparto di medicina chiamandolo sezione di alcologia. Già a quel tempo molte migliaia di persone e famiglie provenienti da ogni parte d’Italia hanno avuto modo di conoscere questa struttura e la possibilità di modificare il proprio stile di vita, affrontando i problemi alcol-correlati: reparti come questo erano (e sono ancora) più rari delle mosche bianche.

Nel giro di qualche anno questo reparto è diventato un riferimento regionale e nazionale, poi definito anche – non da me – come un’eccellenza. La creazione di questo dipartimento ha significato formare nel giro di pochi anni un’equipe espressamente dedicata, con una formazione specifica che consentisse di acquisire un’abilità e un’umanità, direi, nell’accogliere le persone al reparto. Era importante che l’equipe fosse multiprofessionale: medici, infermieri, psicologi, educatori.

“Umanità” in che senso?

Beh, i pazienti non venivano qui cantando le lodi del signore. Era necessario convincerle che questo fosse il percorso più giusto per loro e che qui potevano sentirsi accettati, al sicuro dai giudizi. Le problematiche non riguardavano soltanto il soggetto alcol-problematico ma anche la sua famiglia: chi aveva questo problema si portava appresso anche un certo stigma, estremamente negativo, capace di emarginarlo dalla società. Qui un po’ alla volta si è imparato che la strada giusta era quella di dare consapevolezza: di invitare a mettere mano alla propria esistenza, al proprio modo di vivere. La parola chiave di questi decenni di lavoro è stata infatti “cambiamento”.

E i risultati del reparto quali erano?

Nella stragrande maggioranza dei percorsi era un successo. Bisogna considerare che non per tutte le persone con un problema alcol-correlato è necessario un ricovero, ma per il 10-15% è assolutamente necessario. Il ricovero significava fare un passo importante verso la consapevolezza della propria situazione e della necessità non rinviabile di raddrizzare la propria esistenza.

Come descriverebbe questa dipendenza, rispetto alle altre?

Nei miei 69 anni di vita, una quarantina dei quali di attività medica, posso assicurarle che non ho mai conosciuto nulla di più democratico e trasversale: le condizioni, le risposte, le situazioni dei vari contesti possono variare, ma l’alcol può colpire tutti, a qualsiasi età, in qualsiasi condizione sociale. Inoltre, bisogna considerare che l’abuso di alcol è un problema complesso: non sempre, ma quasi, influisce anche in problemi sanitari. Potrei citarle decine e decine di malattie dove l’alcol è protagonista.

Dottore, cosa ha portato poi alla chiusura del reparto?

Il reparto andava naturalmente molto bene, avevamo addirittura qualche ricambio di personale e il reparto era stato ben ammodernato, quando improvvisamente è arrivato il Covid: questa struttura è stata riconvertita e chiaramente tutto ciò che era all’interno ha dovuto chiudere temporaneamente. Abbiamo quindi dovuto annullare le decine di prenotazioni che si erano formalizzate e chiuso in attesa che la situazione si risolvesse.

Ma poi il reparto di alcologia non ha mai più riaperto, vero?

Esatto, poi è subentrato un altro aspetto drammatico: la difficoltà di reperire personale. Personalmente sono andato in pensione il 1° febbraio 2021, ma chiaramente ho accettato senza remore la richiesta di fermarmi a lavorare: purtroppo il problema non riguardava soltanto la mancanza di un sostituto, ma la mancata reperibilità a 360 gradi di personale medico in generale.

L’amministrazione comunale di Auronzo di Cadore, sia quella attuale sia quella precedente, ha provato con grande impegno a bandire dei concorsi, che tuttavia sono tutti andati deserti. Abbiamo anche valutato l’idea di spostarci altrove, sempre nell’ambito dell’Ulss1, ma non è stato possibile perché l’impedimento dovuto alla mancata reperibilità di personale medico è un problema diffuso ovunque. Solo il servizio ambulatoriale per tutte le dipendenze, quindi anche per l’alcol, è rimasto aperto.

Lei ha dato molto a questa struttura, cosa le ha dato il reparto in cambio?

Parlo a nome mio, ma credo anche dei miei collaboratori, quando dico che abbiamo vissuto con enorme tristezza questa situazione. Ci siamo trovati privati di qualche cosa su cui abbiamo investito e alla quale abbiamo creduto intensamente. I riscontri, i risultati, ci hanno sempre dato ragione. Abbiamo ricevuto dai pazienti specialmente un’energia a livello umano, una grande speranza, che ci pare un peccato non poter più ricambiare: dare alle famiglie la possibilità di affrontare questi problemi non più a capo chino, ma alla luce del sole.

Mi dispiace molto anche per le collaborazioni che avevamo con i territori, con i medici, con le altre strutture, con i club, con le amministrazioni. Credo che il Veneto abbia bisogno di un’esperienza di questo tipo. E a dirla tutta credo che ne abbia ancora bisogno: i problemi non sono diminuiti. Anzi. Le situazioni di questi ultimi tre anni hanno comportato un aumento delle problematiche, non un congelamento né un azzeramento.

Noi siamo fermi, ma l’alcol lavora. E non si stanca mai.

(Foto e video: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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