Profughi nel 1918: fame, disprezzo, bambini costretti a mendicare ed il colpo di grazia della Spagnola

Fame, fame, fame! Oh, poter avere la farina a quintali e poterne dare a tutti senza contare! Almeno a tutti quei fanciulli, a tutti quei bimbi che si presentano ogni giorno sempre più smunti, il nasino più affilato, una grande rassegnazione negli occhi mesti, le spallucce esili, quasi curve, le gambette ogni giorno più sottili, braccia, piedi e manine marcate dalla pellagra. Quanti drammi in ognuna di quelle piccole vittime!

Quante volte, leggendo e rileggendo questo passo del diario della valdobbiadenese Caterina Arrigoni, la storia del nostro territorio è apparsa una ferita impossibile da rimarginare? Quante volte riavvolgendo il nastro della memoria fino alla primavera 1918 tutto sembra così irreale e così difficile da capire?

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La storia dei nostri avi, invece, insegna qualcosa di molto importante: la Grande Guerra non fu una campagna militare gloriosa per i civili del Veneto settentrionale, ma una pagina traumatica, un passato consegnato volutamente all’oblio. La sofferenza negli occhi dei bambini, tante vite spezzate precocemente a causa dell’assenza di cibo, racconti raccapriccianti. La Storia, però, è una sola ed andrebbe raccontata nella sua integrità, senza giri di parole.

Due episodi, accaduti alla signora Arrigoni il 16 aprile 1918, siano da monito anche per gli anni successivi il centenario 1918-2018.

La zia, scherzando, ha detto a una gentile cliente, una piccola profuga da Sernaglia:

Sei tanto carina, che ti comprerei! Dillo alla tua mamma che cosa vuole per venderti.

Alcune ore dopo la piccina è di ritorno tutta accaldata…

Ha detto la mamma che mi vende subito per un po’ di farina.

La zia ricorda lo scherzo del mattino ed oppone delle difficoltà.

Oh, signora, – esclama la piccina, facendo il greppo –  mi compri, mi compri!

Ma no, bambina! L’ho detto per ridere. I bimbi non si comprano! Non sei mica una capretta o un vitellino, tu! Perché vorresti lasciare la tua mamma?

Per la minestra – sussurra la poverina.


Come ti chiami? – chiedo a un’altra bimbetta cinquenne.

Mi vergogno a dirlo! – mormora confusa – Ho un nome brutto, brutto.

Eh, via! Coraggio, di chi sei?

Son dei profughi – confessa in un sussurro tutta vergognosa.

Il male che mi ha fatto questa parola in bocca a quell’esserino. Dopo la prima esplosione di pietà i profughi sono venuti a noia, a disprezzo, a ribrezzo quasi e questa parola, invece di essere sinonimo d’inenarrabile angoscia, ha preso quasi un significato d’infamia. Noi profughi del Piave non potevano arrivare in un momento più inopportuno e costituiamo una vera sventura, aggiunta alle tante altre, che già affliggono il paese al quale siamo destinati. Quanto volentieri avremmo continuato a sfidare le granate, pur di rimanere aggrappati al dolce loco natio, pur di non dover pesare sopra agli altri!

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Ad aggiungere dolore al dolore, oltre alla trepidante attesa di un’offensiva italiana che non arrivava mai, nell’ottobre 1918 scoppiò una grave epidemia: i profughi la chiamarono “Spagnola”. Una malattia contagiosa che causò un sensibile calo demografico sino alla metà del 1919.

Ancora una volta la testimonianza di Caterina Arrigoni si rivela preziosissima. Il 16 ottobre 1918, infatti, scrive: “Ogni giorno negli ospedali continuano ad arrivare a migliaia gli ammalati. Presentano tutti gli stessi sintomi: raffreddore ed influenza nei primi giorni, poi polmonite, quindi denti, lingua e labbra si presentano anneriti come nel tifo e, negli ammalati sopraggiungono improvvisamente il delirio e la morte è certa nelle 24 ore. A Vittorio si curano i più gravi, quelli leggeri sono fatti proseguire. Il peggio è che fra i borghesi ci sono sempre più ammalati”.

La storia del centenario 1918-2018 è anche questa, basta volerla raccontare.

(Fonte: Luca Nardi © Qdpnews.it).
(Foto: per gentile concessione di Luca Nardi)
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