Sembra quasi un ritornello, che purtroppo sentiamo ripetere spesso nelle vicende quotidiane della nostra esistenza. In tanti sostengono che la pandemia ci abbia insegnato poco, o addirittura niente, rispetto allo stile di vita e alla qualità delle relazioni con le persone: troppa arroganza e presunzione in giro, volontà di affermarsi a tutti i costi e di sopraffare gli altri, autoreferenzialità ed egoismo spinti.
Eravamo altezzosi e arroganti prima della pandemia, rischiamo di esserlo anche oggi. Di fatto, perché è da arroganti vedere i problemi e non fare niente, accorgersi e rimandare. Eravamo sconsiderati, come i narcisisti e i presuntuosi, come chi pensa di potercela fare sempre, comunque. Ai nostri giorni, pertanto, ci comportiamo in tanti casi come se la lezione degli anni difficili del contagio – oggi, della guerra – non ci avesse ricordato la caducità di quello che siamo, la fragilità della nostra dimensione fisica, l’importanza e la priorità di alcuni valori di fondo rispetto ad altri, la necessità di uno sguardo nuovo, umile e grato, su quello che siamo e sul mondo che ci circonda.
Per fortuna, ci sono esempi illustri in questo senso, affermatisi in tempi non sospetti nella storia dell’umanità, passata e recente. In particolare, c’è stato un pontefice, bellunese nativo di Canale d’Agordo, che aveva posto proprio la parola ”Humilitas” nel suo stemma episcopale: Albino Luciani, Giovanni Paolo I, trentatré giorni appena sul soglio di Pietro, dal 26 agosto 1978 al 29 settembre dello stesso anno, quando la morte lo colse improvvisamente.
Fu il Papa del sorriso, che riuniva insieme una solidissima cultura, una chiara identità cristiana e una squisita sensibilità pastorale. Umile, fino in fondo, ma senza cedere in alcun modo a buonismi, atteggiamenti dimessi, mancata assunzione delle proprie responsabilità, anzi. La sua storia di sacerdote bellunese diventato prima Vescovo a Vittorio Veneto, e poi Patriarca a Venezia – nella città in cui il predecessore Paolo VI gli aveva posto la sua stola sulle spalle, come segno eloquente e premonitore di quello che sarebbe potuto accadere in futuro – è la testimonianza esemplare di questa inclinazione, capacità, determinazione al bene attraverso lo svolgimento continuo e sapiente dei propri compiti di guida autorevole della comunità ecclesiale, in un dialogo rispettoso e fecondo con le istituzioni civili e le realtà economiche e sociali.
Il beato Albino Luciani – la cui memoria liturgica ricorre per la prima volta il 26 agosto prossimo, proprio nel giorno del primo anniversario della sua elevazione sugli altari avvenuta a Roma in Piazza San Pietro – riuscì con il suo sorriso, il suo primo discorso dal balcone di piazza San Pietro, la scelta di chiamarsi Giovanni Paolo, la rinuncia ad alcune prestigiose insegne papali, le sue udienze sulle virtù teologali a conquistare il cuore del mondo e a inaugurare una nuova primavera nella Chiesa.
A dimostrare che l’umiltà non implica un chiamarsi fuori, uno stare nascosti, l’avere paura di trafficare i talenti che ci sono stati donati, la non disponibilità a svolgere i compiti onerosi a cui si è chiamati nel corso della propria esistenza. Niente di tutto questo: significa stare dentro la vita con la leggerezza, la forza semplice e il gusto dell’essenzialità di chi ha trovato le ragioni vere, i temi prioritari, i significati profondi.
Anche papa Francesco, nella sua recente enciclica sull’ecologia integrale “Laudato sì”, ha messo in luce il valore della sobrietà e dell’umiltà, spiegando come esse non abbiano “goduto nell’ultimo secolo di una positiva considerazione. Quando però si indebolisce in modo generalizzato l’esercizio di qualche virtù nella vita personale e sociale, ciò finisce col provocare molteplici squilibri, anche ambientali. Per questo non basta più parlare solo dell’integrità degli ecosistemi. Bisogna avere il coraggio di parlare dell’integrità della vita umana, della necessità di promuovere e di coniugare tutti i grandi valori”.
“La scomparsa dell’umiltà, in un essere umano eccessivamente entusiasmato dalla possibilità di dominare tutto senza alcun limite – ha osservato ancora – può solo finire col nuocere alla società e all’ambiente. Non è facile maturare questa sana umiltà e una felice sobrietà se diventiamo autonomi … se crediamo che sia la nostra soggettività a determinare ciò che è bene e ciò che è male”.
L’umiltà è proprio di chi ha scoperto di essere creatura e dono, ed evita così di fare sogni ambiziosi e progetti non realistici, concreti e terreni, coltivando una stima troppo alta di se stesso, e alimentando un senso di autosufficienza e superiorità rispetto gli altri. Proprio di persone umili abbiamo bisogno per il cambiamento che attendiamo, le stesse che abbiamo visto e ascoltato durante i lunghi giorni tristi dell’emergenza sanitaria: medici, infermieri, professionisti e volontari capaci di servire la vita in frangenti drammatici, con la dedizione infinita di chi è grande nel cuore, senza pretendere riconoscimenti e onori. Solo per adempiere al proprio dovere e alla propria responsabilità professionale, con senso vero di umanità. E come ha affermato qualcuno, la virtù che più ci servirà per questo tempo nuovo è proprio l’umiltà nel cercare il futuro, dopo le grandi prove della pandemia e della guerra che rappresentano una ferita grave, un’umiliazione per tutti.
La generazioni che ci hanno preceduto avevano visto le devastazioni e i lutti dei conflitti mondiali. Ma quegli stessi italiani si misero a costruire con umiltà le case per i loro figli e il benessere per i figli dei loro figli. Davvero si può pensare che questa umiltà ci servirà per capire che noi stiamo bene solo se stanno bene anche gli altri, che ogni ingiustizia produce dolore collettivo e che ci salveremo solo insieme. Tutti, insieme.
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