I pesci d’acqua dolce nella tradizione della Marca trevigiana: il triotto e il vairone

Il triotto e il vairone

Pesci, pesci, siamo pesci con branchie rosse;
Nulla ci turba e freddo è il nostro sangue:
Siamo ottimisti per i nostri guai,
Che a esser branco ogni pesce è eroe.

Questi versi tratti dalla poesia “Noi pesci” di Herman Melville (1819 – 1891), l’autore di Moby Dick, sono un inno alla fiducia e alla spensieratezza. I pesci, soprattutto quelli più vulnerabili, confidano nella compattezza del branco per sfuggire alle quotidiane insidie pur nella consapevolezza che nulla si può contro il destino avverso.

Da secoli nelle acque dei fiumi, dei ruscelli e dei laghi della Marca Trevigiana migliaia di piccoli pesci nuotano allegramente. Fra questi i triotti (Rutilus aula) e i vaironi (Telestes muticellus) che, privi di marcati caratteri distintivi, vengono spesso confusi con altre specie (lasche, savette e cavedani) anche dai pescatori più esperti.

Il triotto, detto brùssola, brùssoa, brussolétta o centenòtto, è lungo al massimo una spanna per poco più di un etto di peso. Occhio dorato, bocca piccola e rivolta verso il basso, sagoma fusiforme, livrea scura sul dorso, argentea sui fianchi e chiara sul ventre ha il corpo ricoperto di scaglie attraversato longitudinalmente da una banda più scura.

Il vairone, da alcuni chiamato varòn, differisce dal triotto per la forma più slanciata, la bocca sotto il muso, la cornea argentata e una macchia color arancio in prossimità delle pinne pettorali.

Entrambe le specie sono gregarie e possono adattarsi a vivere in stagni, fiumi di pianura o bacini lacustri; il vairone popola anche risorgive e bacini di montagna tanto che la sua presenza è stata segnalata oltre i duemila metri di quota.

Se il triotto è un pesce onnivoro, il vairone predilige esclusivamente piccoli crostacei, molluschi e insetti; entrambi soffrono per il degrado ambientale, il prosciugamento degli habitat tradizionali, la predazione da parte di uccelli e rettili, la competizione con specie estranee più aggressive e resilienti come l’asiatica pseudorasbora (Pseudorasbora parva), l’aspio (Aspius aspius) giunto dall’Europa nord orientale e la gambusia (Gambusia affinis) originaria del Mississippi e introdotta in Italia per contrastare le zanzare.

Nella Marca Trevigiana di fine Ottocento il triotto era “assai frequente nelle fosse in comunicazione coi fiumi” e non era raro che un singolo pescatore ne facesse incetta usando “con profitto ogni sorta di reti”. Fra gli attrezzi idonei alla pesca di triotti e vaironi, si impiegavano anche il restelòn, un retino-rastrello col quale pettinare il fondo dei fossi e varie tipologie di nasse. I branchi di triotti e vaironi potevano essere anche vittime della cosiddetta pesca selvaggia, attuata avvalendosi di piante tossiche, elettricità o esplosivi: una vera sciagura che, non di rado, comportava la completa distruzione di interi ecosistemi. Piuttosto comune era anche innescare con i triotti gli ami degli spaderni (detti anche triziole o corde armade) utili a catturare lucci o grosse trote.

Nella cucina trevigiana tradizionale triotti e vaironi seguivano il medesimo destino di lasche (marcàndole), cavedani (squai), scazzoni (marsóni), sanguinerole (lanfresche), spinarelli (spinariòe) e altre pessùcole: fritture economiche (il triotto costava un terzo dell’anguilla) accompagnate dall’immancabile polenta e da abbondanti radicchi di campo. Un cibo povero ma prelibato, frequente in un’epoca nella quale, fame e sacrifici, proteggevano gli stomaci anche dalle spine di pesce più acuminate. A coloro che oggi guardano con disprezzo questo cibo Charles Bukowski (1920 – 1994), il “poeta maledetto”, con il suo proverbiale sarcasmo avrebbe ricordato che in definitiva “il mondo è meno di una lisca di pesce”.

(Foto: Wikipedia – Valgrande).
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