I pesci d’acqua dolce nella tradizione della Marca trevigiana, la Savetta

La savetta

Lo storico lombardo Cesare Cantù (1804 – 1895) scrive: “Povera la vita del pescatore! La sua sussistenza dipende dal vento e dal tempo, senza che mai proveda a riporre un soldo allorché la fortuna gli dà di guadagnarne due. Al più delle volte pagherà il debito che avrà contratto col fornajo, col pizzicagnolo, coll’oste. Per molti giorni di seguito neppure può uscire colla barca, tempestando: in altri non coglie tampoco un pesciolino… deve un terzo a chi gli prestò la barca, un terzo a chi gli prestò le reti”.

Nella Marca Trevigiana per i pescatori – contadini la situazione non doveva essere molto diversa: freddo, fatica, umidità, zanzare per racimolare i pochi spiccioli indispensabili alla sopravvivenza quotidiana.

Oggigiorno per gli uomini le cose sono fortunatamente migliorate, ma alcuni pesci di fiume o di lago, un tempo numerosi, vivono una stagione di grande difficoltà: e la savetta (Chondrostoma soetta) è uno di questi.

Corpo slanciato e schiacciato sui fianchi, labbra carnose, livrea argentata con tonalità scure sulla schiena e chiare sul ventre, la savetta ha una lunghezza media di 25 centimetri sebbene in condizioni favorevoli possa sfiorare il mezzo metro e pesare anche un chilo.

Abilissima nuotatrice, popola le acque calme dei fiumi e dei laghi con fondali ghiaiosi che, grazie alla bocca rivolta verso il basso, scandaglia meticolosamente alla ricerca di frammenti vegetali, muschi, piccoli crostacei, insetti e uova di altre specie.

La sua morfologia, simile a quella della lasca (Protochondrostoma genei), ha sovente ingenerato confusione. Se in alcuni luoghi della Penisola il termine lasca è assurto quasi al rango di sinonimo di “pesce bianco d’acqua dolce”, nel Trevigiano si è talvolta scambiata la lasca (marcàndola) con la savetta (sovetta o soetta). Lo stesso naturalista Ottocentesco Alessandro Ninni, considera sinonimi “lasca” e “savetta”, ma utilizza le denominazioni di “piccola lasca” o “lasca ranciata” per la lasca vera e propria. Come se non bastasse, a complicare le cose intervengono termini dialettali come fregata, utilizzati tanto per la lasca quanto per la sanguinerola.

Da tutto ciò si comprende come il linguaggio quotidiano e i dialetti possano dar luogo a equivoci o malintesi specie dinanzi ad animali o vegetali comuni e simili fra loro: del resto lo stesso Dante Alighieri definisce la costellazione dei Pesci “celeste lasca” a riprova di come questa specie fosse allora estremamente comune e verosimilmente priva di una forte identità.

Come anticipato in apertura la savetta è fra i pesci di fiume considerati in preoccupante declino. L’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) individua nel degrado ambientale, nella competizione con nuove specie e nell’inquinamento genetico le principali minacce alla sua sopravvivenza.

Un tempo catturate a migliaia nel Piave e nel Sile con reti tradizionali quali il negosso o il giacchio le savette erano apprezzate nella fase di risalita del fiume, prima della deposizione delle uova. Quelle di calata, scrive il Ninni, apparivano così dimagrite da essere rifiutate da tutti.

Tipico pesce da frittura piuttosto liscoso ma tutto sommato accettabile, la savetta fa parte degli ingredienti base di alcune zuppe di pesce o di lago nelle quali una specie pregiata contribuisce a nobilitare le altre: è il caso del “tegamaccio” umbro, della “sbroscia” viterbese o della “zuppa lariana” nelle quali la savetta, il cavedano o la scardola, abbondantemente cosparse di erbe aromatiche, fanno orgoglioso capolino fra rocchetti d’anguilla, filetti di persico reale e polposi tranci di luccio.         

(Foto: Wikipedia).
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