I pesci d’acqua dolce nella tradizione della Marca trevigiana: la tinca

La tinca

Marcovaldo, l’ingenuo e sprovveduto personaggio ideato da Italo Calvino (1923 – 1985) è il protagonista di una singolare battuta di pesca: convinto di aver trovato un luogo idilliaco nella periferia cittadina cattura una gran quantità di tinche, ma è costretto a sbarazzarsene quando una guardia lo informa che il colore azzurro intenso delle acque è dovuto allo scarico di vernici tossiche.   

Nella realtà la tinca (Tinca tinca) è un pesce resiliente, rustico, in grado di vivere in stagni, fossi e lanche fangose e poco ossigenate, ma alquanto sensibile all’inquinamento chimico. Specie appartenente alla famiglia dei Ciprinidi, imparentato con barbi, cavedani e carpe, la tinca normalmente non supera il mezzo metro di lunghezza e i due chili di peso anche se si ha notizia di esemplari decisamente più imponenti. Silhouette ovale, leggermente compressa ai fianchi, ha una colorazione verde più o meno brillante sul dorso e gialla sul ventre. Gli occhi sono di color rosso aranciato, il corpo è ricoperto da uno strato di muco viscido e la bocca è provvista di due corti barbigli che utilizza per esplorare il fondale alla ricerca di vermi, detriti vegetali, lumachine, sanguisughe e uova di rana.

Nella stagione fredda la tinca trascorre lunghi periodi sepolta nella melma, in primavera ed estate “pascola” fra i canneti e le erbe palustri rivelando la propria presenza attraverso l’emissione di bolle più piccole di quella della carpa.

Minacciata dal degrado ambientale, dalla competizione con specie alloctone quali il pesce gatto, il siluro e il carassio, la popolazione di tinca subisce una preoccupante contrazione anche per il progressivo inaridimento di stagni, canali e fossi.

Nella Marca Trevigiana la tènca (tencòto nello stadio giovanile) si catturava utilizzando attrezzi quali il bertovello, una rete conica fissata sul fondo, lo schirale o la bilancia. I pescatori occasionali, conoscendo il territorio e le abitudini della specie, ne facevano incetta usando le mani per scovare le prede infossate nella melma: una tecnica dalla quale discende il detto tociàr nel paltàn, pescare nel torbido.

Pesce piuttosto apprezzato per la qualità delle carni, la tinca necessita di alcuni accorgimenti per eliminare gli sgradevoli sentori di fango quali la purgatura in acque correnti e l’abbondante ricorso a erbe aromatiche altrimenti … tenca, tenca dal paltàn chi te magna no resta san! Anche la stagionalità della cattura ha la sua importanza: il detto tinca in peìssa, lusso in camìsa (tinca in pelliccia, luccio in camicia) sottolinea come la prima sia da preferire in inverno e il secondo in primavera – estate.

Nei ricettari tradizionali della Marca Trevigiana la tinca viene proposta in tecia (al tegame), in umido o sofegàda in abbondante aceto di vino e spezie. Un’altra ricetta tipica è la cosiddetta tenca revoltada, realizzata rovesciando il pesce in maniera che la pelle resti all’interno e inserendo un ripieno di uova, pane e aromi. In Toscana la tinca si cucina con i piselli, in Lombardia si accompagna al risotto, nella cucina ebraica si condisce con acciughe e pane azzimo. La tinca gobba dorata del Pianalto di Poirino, fritta con le foglie di salvia, è un orgoglio tutto piemontese.

Animale placido, capace di adeguarsi seraficamente ad ambienti oggettivamente poco esaltanti come paludi e acquitrini, la tinca ama passare inosservata. Un atteggiamento sfuggente dal quale probabilmente nasce una sorta di maledizione per quegli attori di cinema o teatro che, pur bravi, interpretano ruoli che non suscitano troppe emozioni e che li costringono all’ombra dei riflettori, ove loro malgrado recitano il cosiddetto ruolo della tinca.  

(Foto: Wikipedia).
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