Testa da marsón! I pesci d’acqua dolce nella tradizione della Marca trevigiana: il ghiozzo padano

Il ghiozzo padano
Il ghiozzo padano

Un’ombra si avvicina furtiva alla sponda del canale. La luce fioca della lampada, il ciaro a carburo, è appena sufficiente per non inciampare fra le ramaglie. L’uomo getta in acqua una mistura micidiale di erbe tossiche, le erbe da pésse: euforbia palustre, morella e galle di quercia. Fra i pesci che vengono a galla storditi dal veleno ci sono parecchi ghiozzi che le mani rapaci del pescatore di frodo ghermiscono con spietata avidità.

Il ghiozzo padano (Padogobius bonelli o martensii) appartiene ai Gobidi, una famiglia che riunisce oltre duemila specie prevalentemente marine e fra le quali vi è il ghiozzo gò protagonista della cucina lagunare. I nomi dialettali utilizzati in Veneto per indicare il ghiozzo fluviale non solo sono numerosi (bottola, golfo, magneròn, panciòn, giavedòn, barbiù, lardèl, bottina, bosina e butazzòl), ma talvolta traggono in inganno: il ghiozzo padano è talvolta chiamato marsón, denominazione che più correttamente indica lo scazzone (Cottus gobio) anch’esso caratterizzato dalla testa voluminosa.

Il ghiozzo in effetti non è un campione di bellezza: livrea color sabbia, ventre bianco, fasce scure sui fianchi e soprattutto testa grande, labbra carnose e occhi sporgenti. Il suo habitat prediletto sono i corsi d’acqua di diversa portata, compresi i laghi, con poca corrente e acqua molto ossigenata. Piuttosto pigro, si muove prevalentemente al crepuscolo o di notte per cibarsi di insetti, piccoli crostacei e vermetti. Lungo sei-sette centimetri, vive dai due ai quattro anni.

Sebbene il ghiozzo padano goda complessivamente di buona salute, l’inquinamento, la posa di manufatti artificiali, l’eccessivo prelievo idrico e la competizione con altre specie talvolta provocano il declino di alcune popolazioni locali.

La pesca del ghiozzo ha sempre avuto un interesse marginale: in passato lo catturavano i ragazzi un po’ per divertimento un po’ per fame, oppure entrava a far parte di quella minutaglia racimolata per una frittura economica, il cosiddetto frìto de pésse popolo.

Le tecniche di pesca comprendevano il prosciugamento delle acque, l’impiego di retini (schiràl), reti (raffia o rafego), fiocine di fortuna o attrezzi di circostanza come il furigoto, una pertica con l’estremità a forcella sulla quale veniva fissato un barattolo.

Ai pescatori più esperti il ghiozzo interessava soltanto come esca viva per insidiare prede più importanti quali trote e lucci. Una consuetudine che trova conferma nella saggezza popolare: anche nella vita el pésse grosso magna el pìcolo!

(Foto: Aree Protette – Provincia Autonoma di Trento).
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