Sui muri del manicomio di Feltre le tracce degli ospiti che vi furono rinchiusi: tra follia e vergogna, terapie e sentimenti, il racconto di un ex infermiere

“Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi”.

Questa legge, datata 1904, diede origine a tutti i manicomi d’Italia: a Feltre, dove giaceva inutilizzato un ex-convento abbandonato dal 1775, il manicomio venne istituito nel 1911, creando grande dibattito tra i cittadini.

La legge venne interpretata alla lettera e gli ospiti ricoverati in manicomio diventarono in breve tempo oltre un migliaio, anche perché la struttura garantiva ottime rendite e si era rapidamente convertita in un’azienda, più che in un ospedale dedicato, che riceveva un contributo provinciale per ogni ospite.

Soltanto alcuni ricoverati soffrivano di reali disturbi mentali, come schizofrenie e psicosi: nelle stanze dell’imponente struttura, ancora capace di rispecchiare tra crepe e macchie d’umidità quel passato malinconico, vennero rinchiusi anche alcolisti, prostitute, persone con handicap o malattie sessualmente trasmissibili, epilettici, orfani e omosessuali.

“Il manicomio aveva il chiaro compito di eseguire un controllo sociale – spiega Giovanni Grazioli, direttore della Biblioteca Civica di Belluno, che ha studiato a lungo e in modo approfondito questo tema, per poi restituire questa storia dimenticata ai bellunesi, – Tutte le persone “non produttive”, ovvero quelle che mettevano la società e la famiglia in difficoltà e in imbarazzo, venivano recluse là dove potevano non essere viste”.

Un certificato medico qualsiasi e la conferma di un tribunale (che però si basava quasi sempre sul certificato medico) erano sufficienti per motivare un ricovero, che era il più delle volte coatto, quasi mai volontario: per il primo mese c’era un mese di osservazione, poi era del direttore del manicomio la facoltà di mantenere o meno il paziente. Molti degli ospiti erano destinati a un ricovero a vita. “Quando nel 1948 venne approvata la Costituzione della Repubblica Italiana, con le sue norme, i suoi diritti e le sue libertà, all’interno dei manicomi non cambiò assolutamente niente. Questo fino al ’78.” afferma Grazioli.

Fare l’infermiere al manicomio era un lavoro ambito, specialmente per via dello stipendio fisso: nei primi anni, quando in manicomio lavoravano esclusivamente gli uomini, si veniva scelti per via della corporatura. Un infermiere esile non sarebbe riuscito a contenere un ospite o a dargli la più antica delle “medicine” presunta efficace a quel tempo, ovvero le botte.

Con l’introduzione degli psicofarmaci, le risorse del manicomio vennero selezionate al netto di questo vincolo e alcune di loro ebbero anche la possibilità di frequentare dei corsi di specializzazione. “Sono riuscito a fare l’infermiere per tutta la mia vita perché ho sempre avuto a casa la mia terra da coltivare: lì scaricavo tutto ciò che raccoglievo dentro di me durante la giornata. E poi mia madre mi ha detto di essere sempre positivo” ci racconta Romano Scopel, che ha trascorso un’intera carriera da infermiere nella struttura.

Il manicomio di Feltre, che al contrario di oggi era completamente recintato e delimitato da mura e cancelli, era una sorta di cittadella autonoma, dove si poteva trovare all’interno tutto il necessario per il mantenimento degli ospiti e del personale: dal calzolaio al falegname, dal materassaio al macellaio, dalla lavanderia fino al servizio mortuario, ognuno aveva un ruolo ben preciso.

Gli infermieri si dividevano in tre turni, con un costante controllo del numero degli ospiti presenti: “A quel tempo non c’erano gli addetti all’assistenza o alle pulizie: l’infermiere aveva l’onere di eseguire tutte le operazioni che avvenivano all’interno della struttura, comprese le docce, i pasti e le pulizie. Bisogna dare atto però anche a quanto hanno lavorato gli ospiti all’interno di queste strutture”.

Al mattino c’era un momento in cui era possibile uscire in giardino o giocare a carte. Scopel ci spiega che alcuni ospiti più irrequieti venivano contenuti con degli anelli metallici fissati agli alberi o alle pareti con un laccio alla mano, che consentiva loro di spostarsi di qualche metro. “L’arrivo delle infermiere donne ha portato una gran ventata di novità e tanta voglia di fare qualcosa di nuovo” spiega Scopel, portandoci nel cortile esterno, dove ci indica alcuni disegni ancora visibili su una parete, opere di alcuni degli ospiti che ha seguito personalmente per decenni.

Un altro tema importante, al manicomio di Feltre, sono stati i trattamenti psichiatrici: prima degli anni Cinquanta, l’unico metodo per gestire un paziente irrequieto era quello fisico, poi gli psicofarmaci hanno attenuato le pulsioni, così da consentire l’introduzione delle nuove terapie da shock. Il celebre elettroshock, un’invenzione di Ugo Cerletti, è stato introdotto anche a Feltre come ovunque nella penisola: consisteva in uno strumento applicato alle tempie che, col passaggio di energia elettrica a un alto voltaggio ma per breve tempo, agiva direttamente all’interno del cervello.

La valutazione erronea d’insieme, in questo caso come negli altri, stava nel considerare di rimuovere la malattia attraverso la soppressione dei sintomi. “Un altro metodo molto utilizzato era lo shock insulinico – spiega Giovanni Grazioli, – un po’ come succede nelle persone che soffrono di diabete, la persona andava in un coma intenso e la dose veniva interrotta precisamente a due minuti prima del collasso”.


Questi procedimenti, che a noi oggi sembrano disumani, ma che fino a pochi decenni fa erano considerate ragionevoli e accettati dalla comunità, venivano ripetute anche ottanta o cento volte nei pazienti con patologie più gravi. “La lobotomia transorbitaria frontale, uno dei primi sistemi di chirurgia al cervello, venne introdotta nel 1937 da Adamo Fiamberti, di Varese – continua il direttore. – Consisteva nell’introdurre un punteruolo sotto l’arcata sopraccigliare, incidendo il cranio con un martelletto e raggiungendo direttamente la materia cerebrale. Bisogna considerare che veniva fatta alla cieca, senza sapere quali potessero essere i danni effettivi”.

Queste informazioni collezionate e raccontate da Grazioli durante la visita, derivano dal libro del dottor Gino Meneghel, che rimase a Feltre fino al 1976. Nel 1978 la legge Basaglia pose fine all’era dei manicomi e gli ospiti furono trasferiti nei centri di salute mentale: non è tuttavia raro, passeggiando in quell’area a Feltre, imbattersi in qualcuno che abbia avuto a che fare, in un modo o nell’altro, con la struttura.

Oggi sappiamo che spesso il confine tra genialità e follia è sottilissimo, qualche volta inesistente: a confermarlo ci sono le decine di aneddoti che ancora sa ricordare la solida memoria di Romano Scopel, per nulla malinconico quando parla dei “suoi” ospiti.

“Qui dentro c’erano anche degli artisti veri e propri. Ricordo, per esempio, un uomo molto mite e tranquillo, proveniente da Costalta, di cui ho letto soltanto dopo la sua morte essere uno scultore che addirittura aveva partecipato all’Accademia di Carrara come studioso. Di lui abbiamo recuperato alcune immagini attraverso un film del 1991 che è stato girato qui dentro, “Café La Mama”.

“Sono stato per 25 anni assieme a un ospite, che col tempo è diventato un amico: mi ha raccontato tutta la sua vita prima di finire in manicomio. Era un ragazzo come tutti gli altri, bravo e volonteroso, che aiutava la comunità: a quindici anni è stato aggredito da questa bestiaccia. Mi ha raccontato la difficoltà di studiare e di come la famiglia non accettasse la sua trasformazione. E invece lui aveva una grande voglia di credere in qualche cosa, in un futuro: ormai vedeva la sua vita com’era e così si era deciso a credere nella vita ultraterrena. Mi piace credere che lui sia ancora qui con noi, in modo da poterlo salutare e da poter dire: ciao Valter, ti vogliamo ancora bene”.

(Foto e video: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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