Un castello su un monte non passa inosservato. Nella storia, osserviamo, attira generalmente uomini ambiziosi, che vogliono scalare e superarsi, raggiungere una veduta strategica, una visione più ampia, sul mondo che li circonda.
Ma un tempo, se i valorosi raggiungevano il titolo di possessori di un castello, generalmente amavano fortificarlo, per difenderlo da tutto ciò che non chiamavano con il proprio nome.
A Castelbrando c’è passato Claudio Augusto, Carlo Magno, Ottone I, il Casanova, la Regina Margherita e dal 400 in poi la potente famiglia Brando-Brandolini, ma il primo ad aprire le porte ai visitatori non è stato un nobile né un cavaliere, ma un imprenditore veneto, nato a Santa Lucia di Piave: Massimo Colomban.
È lui ad accogliere Qdpnews.it per un’intervista, nella quale approfondiamo due argomenti, che pensavamo collegati ma che scopriamo a sé stanti: il castello e l’ambizione leggendaria di Massimo Colomban.
Ci racconta che Castelbrando non era per lui che un imponente maniero su un colle boscoso, né ben tenuto né considerato dalla popolazione. Tanto più che i Salesiani gli propongono più volte di accettare la sfida di rilanciarlo, con un investimento colossale che nessun’istituzione locale o regionale si sarebbe permessa.
Inizialmente la risposta dell’imprenditore è un no. Troppi rischi, troppe incognite per un investimento che comprende l’acquisizione di una proprietà storica di oltre cinquanta ettari in condizioni incerte.
Un giorno, a cena in una delle sale da pranzo del castello, osservando il soffitto e le travature, Massimo Colomban si accorge della situazione in cui giace l’intera struttura: comincia così a idealizzare, disegnare, calcolarne passo dopo passo il restauro ideale. Passa qualche anno, diversi progetti, poi comincia la sfida.
Nel 1998 lo scrittoio del condottiero Gattamelata diventa la scrivania dell’imprenditore: si tratta di un incavo bruciato nella roccia, in quello che è diventato il suo appartamento, ossia esattamente dove gli chiediamo di sedersi mentre ci racconta quest’impresa.
Solo il castello è costato circa sessanta miliardi di lire: ventimila metri quadri di coperto, oltre otto ettari di scoperto, duecentosessanta stanze e trecentosessantacinque finestre – questo tra gli aspetti più poetici di un investimento colossale.
Ma non è soltanto la portata dell’acquisto che ci impressiona, quanto l’impresa di rinobilitare un edificio di queste proporzioni trovando il giusto bilanciamento tra potere attrattivo e dignità storica, tra funzionalità e lusso, tra comodità e servizi.
Una volta proprietario del castello, Colomban ha la possibilità di mettere a disposizione non tanto la sua esperienza come imprenditore, quanto come ospite di hotel in tutto il mondo: si decide così nella pianificazione del restauro che Castelbrando diventerà non soltanto un esempio di ospitalità alberghiera veneta (superando lo stile neoclassico dei villoni), ma una vera e propria esperienza esclusiva, dedicata a un pubblico sensibile al turismo romantico, alla riscoperta di un’epoca come quella medievale, ma anche un luogo adatto a meeting aziendali ed eventi formali.
I lavori iniziano poco dopo e durano cinque anni: l’obiettivo è quello di superare i duecento mila visitatori all’anno, arricchendo l’offerta alberghiera del castello con meeting room, cocktail bar (l’imprenditore ci cita per esempio “il Donatello”, locale dove l’artista a cui è ispirato ha riscritto per otto volte il contratto preventivo per la creazione della statua equestre del Gattamelata), ristoranti, aree museali e teatri, risolvendo inoltre, una volta per tutte, il problema del parcheggio.
Infatti il protocollo comprende la costruzione di una funicolare lunga duecento metri, col quarantacinque percento di pendenza, che – secondo le indicazioni dell’imprenditore – non deve avere alcun impatto sull’aspetto del castello.
“Non mi sono innamorato del castello, mi sono innamorato del restauro” ci racconta. “Ho visto quanta tecnologia avessero i nostri avi centinaia di anni fa”.
A proposito di tecnologia strutturale, sotto il castello vengono scavati 23mila metri cubi di roccia: con questo sistema, oltre all’intento originale di ottenere a valle lo spazio per tre garage da cinquanta automobili cadauno, la funicolare trova un suo spazio ottimale all’interno dell’altura, scongiurando la polemica di qualche ipotetico diffidente che osserva il castello con un binocolo in attesa di un errore architettonico.
Per preservare l’autenticità delle pareti, invece, Massimo Colomban ingaggia un’intera squadra di restauratori professionisti le stanze vengono restaurate nei marmorini, sculture e decori.
Le esigenze del castello, poi, arrivano a stabilire quarantamila chili di tubature complessive, otto centrali termiche a gas per riscaldare, sei gruppi refrigeranti per raffreddare, ventuno centrali per il trattamento dell’aria, centomila luci, quasi tutte a led (con tanto di domotica) e centoventi telecamere nell’area esterna e nei corridori comuni, centodieci serrature elettroniche per le stanze.
“Sconfiggeremo anche gli impavidi” è da sempre il motto di Castelbrando: Massimo Colomban ha dichiarato in un’intervista precedente di averlo usato come mantra nell’affrontare di petto questa sfida.
Gli imprevisti sono stati diversi, complicazioni burocratiche e strutturali, tempi di attesa, autorizzazioni e spese inaspettate, ma a detta dell’imprenditore soltanto un antagonista è riuscito a ferire (di striscio, s’intende) l’entusiasmo di questa missione: la mancata sinergia tra le realtà del territorio, che non hanno saputo valutare il restauro come un’opportunità.
La previsione di Colomban è stata quella che poi da pochi giorni si è avverata (si noti bene che l’intervista è stata girata nei primi giorni di aprile), ossia la proclamazione delle colline come Patrimonio dell’umanità: l’idea di fondo era “quella di creare una sinergia tra vino, borghi, culture e imprenditorialità che sono insite nei cromosomi delle genti venete e diffusissime nel territorio”.
Castelbrando nella visione di Colomban potrebbe aiutare e proiettare nel mondo queste ricchezze e preziosità, purché gli amministratori e imprenditori locali sappiano fare rete abbandonando campanilismi inutili, anacronistici e dannosi per lo sviluppo futuro”
Massimo Colomban ha vissuto nel castello solo per qualche settimana, poi ha preferito rimanere nella propria casa in Conegliano. Occasionalmente ci ritorna per controllarne l’aspetto (le travi – magari).
L’appartamento in cui lo intervistiamo pare nuovo, intonso, anche se le fondamenta su cui è stato costruito hanno subito quasi duemila anni: la sedia sullo scrittoio cigola appena mentre lui ci parla della sua vita, che di castelli metaforici ne ha incontrati diversi.
Alcuni li ha ricoperti di vetro, altri li ha assediati fino a diventarne il signore. Quello a Cison di Valmarino non è che il più evidente.
(Fonte: Luca Vecellio © Qdpnews.it)
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