La seconda conferenza del ciclo “Gorgo al Monticano tra storia e mistero”, un appello alla salvaguardia di Lino Marangon

Organizzato dall’amministrazione comunale negli spazi messi a disposizione dal Gruppo Festeggiamenti di Cavalier, l’incontro culturale è stato introdotto da Patrizia Tasco (assessore alla Cultura) e moderato dallo storico Mauro Fasan che, davanti a un folto e qualificato pubblico, ha presentato l’architetto trevigiano Igino Marangon, disegnatore e autore di fondamentali pubblicazioni sul patrimonio edilizio e artistico locale.

Riprendendo le ricerche raccolte nel libro Architetture venete. Casoni, rustici e barchesse, edito nel 2014 da RG di Treviso, Marangon ha mostrato l’evoluzione della casa colonica veneta a partire dalle forme più umili e povere (i casoni di paglia, fango e legno), fino al progressivo imporsi delle case in muratura (XVII-XIX secolo), distinte per materiali (mattoni crudi e in terracotta) e struttura (portici, archi, valesane e teze).

A testimonianza dei paesaggi e delle dimore rurali dei secoli più lontani sono state sapientemente proiettate alcune immagini derivanti dai fondali o dagli sfondi di opere pittoriche come L’autunno di Jacopo Bassano (1510), La caccia in valle di Vittore Carpaccio (1495) e Il paesaggio trevisano di Guglielmo Ciardi (1850).

Il libro presenta una chiara classificazione per tipologie, dai casoni (costruzioni che vanno dal semplice capanno di legno e fango alla sua trasformazione in casa di muratura con tetto in paglia) alle case a pepian, a quelle con portico (a falda, ad archi) fino alle più complesse “case di tipo veneziano”. Vengono inoltre analizzati vari tipi di boarie (composte da stalle, fienili, portico di ricovero attrezzi e abitazione dei serventi) e di barchesse (tipiche adiacenze di matrice palladiana adibite stalle, fienili, granai, cantine e ricovero attrezzi).

Le attuali testimonianze fotografiche documentano tuttavolta la drammatica realtà delle case frazionate in molteplici proprietà, abbandonate o divenute financo “carcasse scheletriche di vecchi rustici”, prive di quegli oggetti di vita quotidiana che costituivano “l’orizzonte domestico degli abitanti e dello sfondo su cui era costruita l’esperienza dell’abitare” (A. Piccin). Il lavoro di Igino Marangon, realizzato in anni di passione con preciso metodo scientifico, costituisce la base per ricomporre “un’etnografia della vita quotidiana, degli spazi domestici con i suoi arredi funzionali, delle pratiche di socialità interna ed esterna e delle pratiche performative che hanno costituito l’identità della civiltà contadina veneta fino agli anni Settanta” (A. Piccin).

Del territorio opitergino, che pur vanta il recupero filologico di una alcune realtà come il cason di Frassenè di Piavon e la “casa della fate” (esempio di caséta da pisnenti a due piani, a unico vano di profondità e senza portico, progettata da un capomastro) di Goffredo Parise a Gonfo di Salgareda, sono state mostrate e commentate le immagini del “casone complesso” di Chiarano, della casa “ben strutturata” di Navolè e di quelle mezzadrili del conte Ancilotto a Villanova di Motta, caratterizzate dal colore giallo e dagli “archi del portico estremamente ribassati” (ora in completo abbandono).

Su un tessuto connettivo fatto da case aperte al mondo e caratterizzate da particolari planimetrie e materiali di costruzione, si è imposto a partire dagli anni Settanta un modello insediativo di tipo individuale, in cui lo spazio esterno (l’orto, il terreno agricolo e gli annessi) sono stati sostituiti da “giardini recintati, habitat di specie esotiche simili a quelle che vengono impiegate nelle aree urbane” (A. Piccin).

Il comprensorio opitergino, che ha le credenziali per essere candidato a territorio UNESCO in virtù della sua storia, delle sue eccellenze e delle sue eminenti opere architettoniche (M. Zabotti), non può prescindere dal recupero della bellezza del suo originale paesaggio rurale: “Ora le vecchie case ci mancano – ha dichiarato Igino Marangon – non solo perché richiamano la vita a contatto con la natura, ma soprattutto perché le sentiamo nostre, sentiamo che veniamo da quel mondo, nel quale si era in armonia con il paesaggio, un paesaggio antropizzato con sapienza, con amore, con un senso del bello e del buono che forse stiamo perdendo”.

(Foto: Gorgo al Monticano tra storia e mistero).
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