Un emozionante percorso nel cuore della viticoltura eroica ci conduce a Valdobbiadene, diecimila abitanti, cuore pulsante del comprensorio collinare proclamato Patrimonio dell’Umanità nel 2019.
Il giusto riconoscimento alla laboriosità e all’ingegno di generazioni di vignaioli che con sapienza, metro dopo metro, hanno messo a dimora le barbatelle di vite su ciglioni inaccessibili alle macchine agricole senza compromettere la natura originaria del panorama.
Secondo Paolo Diacono, monaco vissuto nel VII secolo e autore della Historia Langobardorum, “Duplavilis” (fra due fiumi) è il luogo nativo di Venanzio Fortunato (530 – 607) poeta, vescovo e santo che, proprio per le sue origini, viene definito “Duplavenses”.
Numerose fonti concordano nel ritenere l’abitato originario ubicato in prossimità di un’antica biforcazione del Piave, in una ipotetica “Vallis Duplavis” destinata a trasformarsi nel Medioevo in “Dubladino”, “Dobladino”, “Vallis Dubladinis”, “Valledoblandeni”, “Val di Dobiadene” tutti toponimi riferiti all’idronimo “Plavis” e comprendenti, sotto un’unica denominazione, le diverse frazioni del circondario.
Chi tentasse di rintracciare la millenaria storia di Valdobbiadene nel blasone civico rimarrebbe sorpreso da una rappresentazione mitologica sui generis e per certi versi fuorviante. Nessun tralcio di vite o grappolo d’uva, nessun richiamo all’enologia, ma una dea protagonista del pantheon greco e romano.
Diana Cacciatrice ammantata d’argento, con arco e faretra d’oro, seguita da un cane e posta su una nube anch’essa d’oro è infatti una trovata del secolo scorso. La sorella di Apollo, per i Greci Artemide, signora delle fiere e della caccia, protettrice della fertilità e della castità, è stata scelta poiché il suo ambiente d’elezione, la montagna boscosa e ricca di acque, è il medesimo nel quale è immersa Valdobbiadene, incastonata fra i rilievi prealpini e il corso del Piave.
Dopo aver passeggiato lungo le rive del Sacro Fiume, ammirato i pascoli e le malghe del monte Cesen, sostiamo a lungo sulla collina di Cartizze: il pretesto è quello di indagare sulla veridicità di una teoria che associa il toponimo alla locuzione dialettale gardiz o gardizze, il gratticcio per far appassire i preziosi grappoli prima della pigiatura. Senza aver raggiunto una certezza raggiungiamo il parco di Villa dei Cedri.
Fra alberi imponenti e arbusti rigogliosi ci imbattiamo nella “britola gigante”, monumentale riproduzione della roncola, il tradizionale coltello contadino. Il manico è stato ricavato da un impressionante tronco di cedro che, per anni, ha celato al suo interno una scheggia forse risalente alla Grande Guerra. La britola, nella sua essenzialità di attrezzo quotidiano, racchiude la vera natura degli abitanti di queste rive e della Marca: semplicità, concretezza, forza, amore per la propria terra e dedizione al lavoro senza compromessi.
(Autore: Marcello Marzani).
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