Toponimi della Marca trevigiana, San Polo di Piave: storie di santi e spade e di gamberi in una campagna ricamata dai vigneti

Il toponimo di oggi: San Polo di Piave

San Polo di Piave, circa cinquemila abitanti, sorge a metà strada fra Ormelle e Cimadolmo a una manciata di chilometri dalla riva sinistra del sacro fiume.

Come altrove siamo di fronte a un agionimo, un nome geografico connesso con il culto di un santo: Polo, come facilmente intuibile, non è altro che la modificazione dialettale di Paolo. Di borghi con questa denominazione se ne trovano un po’ in tutt’Italia: San Polo dei Cavalieri a Roma, San Polo d’Enza a Reggio Emilia, San Polomatese a Campobasso, soltanto per fare alcuni esempi.

Nativo di Tarso, nell’odierna Turchia e di origini ebraiche, Paolo visse nel I secolo e divenne famoso per la sua conversione avvenuta sulla via di Damasco. Un evento talmente improvviso e spettacolare che ancora oggi “essere folgorati sulla via di Damasco” significa cambiare repentinamente le proprie convinzioni in ambito non soltanto religioso.

La presenza dell’apostolo dei Gentili aleggia anche sul blasone comunale nel quale il torrione rosso merlato alla guelfa ricorda il dominio dei Patriarchi di Aquileia (VIII – XV secolo); la pianura verde simboleggia la fertilità del suolo e la daga d’argento e d’oro evoca l’origine romana dell’abitato. La corta spada a doppio filo è a sua volta parte integrante dell’iconografia del santo per due ragioni. Innanzitutto san Paolo fu un soldato di Dio la cui parola, più tagliente di una lama, aveva la capacità di penetrare l’anima; secondo perché la spada fu l’arma utilizzata per martirizzare l’apostolo decapitato fuori dalle mura di Roma.

A proposito di spade è interessante ricordare come San Polo, per circa un secolo, fu un feudo di Cristoforo da Tolentino, capitano di ventura al soldo della Serenissima morto a Treviso nel 1462 e diventato famoso per aver ucciso Niccolò Fortebracci con un “colpo di stocco entratogli per l’occhio nella testa”.

Lasciate alle nostre spalle queste vicende interessanti ma piuttosto cruente, soffermiamoci ad ammirare lo straordinario ciclo di affreschi del Quattrocento, opera di Giovanni di Francia, nella chiesetta di San Giorgio. Sulla tavola dell’Ultima Cena, a fianco del pane e del pesce, compaiono dei gamberi scarlatti. Secondo alcuni studiosi i crostacei sottintendono una velata polemica contro le eresie e la comunità ebraica che considera il gambero un cibo impuro poiché privo di squame e pinne. Altri osservatori, più prosaicamente, indugiano sulla proverbiale prelibatezza dei gamberi d’acqua dolce, orgoglio locale, e si dicono certi che le brocche di vino contengano già a quell’epoca il leggendario Raboso del Piave.

Condividiamo questa interpretazione e solleviamo un calice di “sangue del diavolo” per salutare San Polo di Piave e i suoi abitanti, custodi di tanti tesori fra i quali la “bellussera”, un sistema di allevamento della vite a raggiera il cui effetto, visto dall’alto, è quello di un pizzo delicatamente adagiato sulla splendida campagna veneta.        

(Foto: Qdpnews.it ©️ riproduzione riservata).
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