La moscaròla, moscariòea o moscariòla è un’ampolla in vetro, aperta sulla sommità e sul fondo, un tempo utilizzata per catturare le mosche ingannate dagli effluvi del legno quassio. Nota anche come guardavivande per la propria utile funzione e parente stretta del moscaròl, il mobiletto provvisto di retina metallica essenziale per mettere al sicuro formaggi e salumi, la moscaròla tornava utile ai ragazzi desiderosi di catturare i pesciolini di fiume.
Innescata con una manciata di farina o qualche vermetto, poggiata sul greto del fosso in pochi centimetri d’acqua, talvolta fissata a una pertica, la moscaròla serviva a imprigionare alborelle (àole), cobiti (forasass), avannotti di pesce gatto e tanti altri esserini acquatici.
Fra questi lo spinarello (Gasterosteus aculeatus), conosciuto nel dialetto della Marca Trevigiana come spinariòla, spinaròla, spinarella o spinariòa e che il naturalista ottocentesco Ninni chiama anche spillancola.
Lungo cinque – otto centimetri, di color bruno sul dorso e argentato sui fianchi, lo spinarello deve il proprio nome alle tre spine erettili che formano la pinna dorsale. La silhouette ossuta è all’origine del detto trevigiano “magro fa ‘na spinaròla” usato per indicare persone esili tutte pelle e ossa. Nel periodo degli amori la gola e l’addome dei maschi virano al rosso acceso, gli occhi divengono azzurri e il corpo emana riflessi metallici.
Irascibili e incontenibili, gli spinarelli in amore attirano (e talvolta costringono) le femmine a entrare in un nido cilindrico tappezzato di alghe e di erbe per deporvi le uova che essi sorvegliano fino a qualche giorno dopo la schiusa. Nel momento febbrile dedicato alla fecondazione gli spinarelli maschi, pur di soddisfare il loro istinto di riproduttori, non esitano a fingersi rassicuranti femmine per indurre le partner a deporre. Queste tuttavia non sono da meno visto che, in talune circostanze, non hanno alcuna remora a divorare le uova altrui.
Lo spinarello, un tempo diffusissimo in tutti i canali, i fossi, le risorgive e le anse più tranquille dei torrenti trevigiani oggi è in preoccupante declino per il degrado ambientale e l’eccesivo rilascio di trote per la pesca sportiva. Sembra passata un’eternità dai tempi in cui i ragazzi, scalzi e in pantaloncini corti, facevano incetta di spinarelli nelle acque dei piccoli ruscelli (oggi desolatamente asciutti) che confluiscono nel Soligo, nel Monticano o nel Lierza. Alcune popolazioni di questa interessante specie per fortuna sopravvivono a ridosso della laguna grazie alla loro capacità di adattarsi ad acque salmastre purché limpide e ricche di alghe.
Di scarsissimo interesse alimentare, lo spinarello è oggetto di studio per una caratteristica davvero particolare: la perdita delle placche ossee sui fianchi e l’aumento dei denti da parte degli esemplari che vivono in acque dolci anziché salate. Una peculiarità che gli scienziati reputano interessante per la cura di alcune malformazioni del palato e lo studio della ricrescita dentale.
Un’ultima curiosità: lo spinarolo (o nocciolino) che si trova sui banchi di alcuni mercati ittici è un piccolo squalo (Squalus acanthias) diffuso anche nel Mediterraneo che, con l’iracondo spinarello, ha in comune solamente le acuminate pinne dorsali. A quest’ultimo, risparmiato dalle moscaròle ma decimato da ben altre insidie, resta l’onore di esibirsi negli acquari dinanzi allo sguardo incantato degli appassionati che osservano rapiti i rituali di corteggiamento di questo sorprendente, minuscolo gigante della nostra fauna.
(Foto: Wikipedia).
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