La lotta al virus e il “miracolo di Montebelluna” nei racconti dei primari del reparto Covid dell’ospedale San Valentino

Lavoro d’equipe, condivisione, grande professionalità e dedizione estrema per il proprio lavoro. Sono stati gli ingredienti di ciò che da alcuni è stato definito il “Miracolo di Montebelluna” nella gestione dell’emergenza sanitaria contro il Covid-19.

Una settantina sono stati, in totale, i pazienti ricoverati in terapia intensiva, soltanto tre i deceduti, con una mortalità quindi al di sotto del 5 percento. Una perfetta gestione, maturata dalla conoscenza di quanto è avvenuto in Lombardia con una ventina di giorni di anticipo e sulle esperienze del Cà Foncello di Treviso che in prima battuta ha accolto i primi pazienti trevigiani infetti.

“E’ stata un’esperienza decisamente nuova e particolare – spiega Riccardo Drigo, primario di Pneumologia -. In 40 anni di esperienza professionale non ho mai visto nulla del genere. Abbiamo unito le forze di quattro reparti più la rianimazione per fare un unico reparto. Tutti, direttori e medici, ci si trovava di fronte a un’unica cartella clinica, discutendo sui pazienti e prendendo le decisioni importanti di diagnosi e di terapia. Due ali di Medicina sono state destinate ai pazienti Covid, ora la ristrutturazione sta avvenendo secondo quelle che sono le direttive regionali”.

“Regione e Ulss2  – prosegue – hanno fatto bene la loro parte, gli organismi di collegamento, comitati di coordinamento hanno funzionato bene. Ora la metà di un’ala del reparto, con dieci posti letto, sarà destinata a pazienti che potrebbero essere ancora infetti dalla malattia. Sarà una zona di isolamento secondo quelle che sono le indicazioni della Regione. L’altra metà, già occupata da pneumologia, avrà una vicinanza strategica in caso di nuovi contagi. Abbiamo installato centraline di monitoraggio che possono tenere più sotto controllo i pazienti e sono in arrivo nuovi strumenti che ci consentiranno di affrontare ancora meglio nuove future urgenze”.

“Siamo passati da un primo momento di sbigottimento generale – è il commento di Luisa Vedovotto (Lungodegenza) – di fronte a una valanga che ci stava precipitando addosso, a una rapidissima riorganizzazione. E’ grazie alla collaborazione di tutti che ci è stato consentito, con coraggio innanzitutto e con molta determinazione, di andare avanti con dei protocolli terapeutici che ci hanno permesso in poco tempo di raddrizzare la situazione e di alleggerire, dopo appena dieci giorni, la rianimazione del dottor Agostini”.

Geriatria, del primario Lucia Martinelli, è stato un reparto cruciale di tutta la fase emergenziale: “Siamo riusciti a gestirla nonostante evolvesse di momento in momento – spiega la dottoressa Martinelli -. Le direttive cambiavano di giorno in giorno per cui bisognava continuamente rivedere i nostri atteggiamenti clinici. E’ stata un’esperienza stimolante per tutti e abbiamo acquisito delle competenze che prima non avevamo. Drammatica la comunicazione, la cosa che ha creato più sofferenza è stata l’impossibilità di poter comunicare con i famigliari dei pazienti in maniera adeguata e con i pazienti“.

“Qualcosa di inimmaginabile prima di questo evento – dichiara Loris Confortin (Medicina) -. Come responsabile del reparto che aveva la massa critica di letti maggiore, comunque sarebbe stato duro farcela senza il contributo di tutti i colleghi. L’aspetto più importante è stato condividere un percorso di cui nessuno di fatto avesse una verità in tasca. Quindi, la condivisione ci ha permesso una gradualità molto utile dal punto di vista clinico che partiva dal pronto soccorso dove le persone non complicate venivano rimandate a casa con l’adeguata assistenza ed eventuale terapia. In terapia semi intensiva con il contributo di colleghi che avevano più esperienza. Facendo di tutto perché poche persone arrivassero all’estremo, la terapia intensiva della Rianimazione del dottor Agostini”.

Rianimazione e terapia intensiva, nel reparto gestito dal dottor Moreno Agostini, arrivavano i casi più gravi: “Se dovessi riassumere l’esperienza di questi due mesi – dice il dottor Agostini -, la definirei come un’esperienza di comunità. Una comunità che si è trovata improvvisamente a essere unita. In pochi giorni abbiamo messo in piedi un corso con 160 persone per istruire gli infermieri e tutti gli operatori coinvolti, abbiamo capito come utilizzare i caschi. La semplicità è ciò che ci ha salvato, senza perdere tempo, e abbiamo deciso esattamente le cose importanti che ognuno doveva fare. Tante terapie che prima erano specifiche della terapia intensiva sono state date in mano ai colleghi e gestite in modo ottimale”.

(Fonte: Flavio Giuliano © Qdpnews.it).
(Video: Qdpnews.it © Riproduzione riservata).
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