Sul fondale del ruscello, fra le pietre levigate dalla corrente, un gambero di fiume perfettamente mimetizzato con l’ambiente circostante procede lentamente alla ricerca di cibo. D’improvviso qualcosa lo spaventa e con un guizzo fulmineo si lancia all’indietro scomparendo in un’angusta fessura.
Pur essendo un crostaceo e non un pesce, il gambero d’acqua dolce non poteva mancare nel nostro viaggio dedicato alla pesca nella Marca Trevigiana. Conosciuto come gànbro (sinistra Piave), gànbaro (destra Piave) è una creatura tanto apprezzata quanto fragile. Già nel XIX secolo il celebre naturalista Alessandro Ninni studiava la “fierissima epidemia” responsabile della rarefazione dei gamberi in Veneto. Inquinamento, pesca indiscriminata, alterazione dell’habitat, patologie letali e, più recentemente, l’invasione del gambero della Louisiana continuano a minacciare gli esemplari autoctoni oggi per fortuna severamente protetti. Fra gli avversari più temibili per il gambero vi sono pesci predatori come il luccio, la trota, l’anguilla e il persico oppure uccelli acquatici come l’airone o le anatre.
Il gambero di fiume o dai piedi bianchi (Austropotamobius pallipes) è molto esigente in termini di qualità delle acque. Vive nei torrenti e nei laghi, nei fossi, fra i ciottoli, le radici o in cunicoli scavati nel terreno delle sponde. Lungo al massimo dieci – dodici centimetri, di color bruno-giallastro, ha abitudini generalmente notturne. Onnivoro e opportunista si nutre di larve, insetti, molluschi, resti di animali e detriti vegetali. Pare che riesca a vivere oltre dieci anni.
Carico di simbologia per la muta della corazza che evoca la Resurrezione di Cristo, il gambero d’acqua dolce è rappresentato in numerosi dipinti: in San Zeno a Verona, nella chiesa dei SS. Corona e Vittore a Feltre, a San Giorgio di Treviso, a San Polo e a Mareno di Piave.
Dal punto di vista gastronomico ha sempre suscitato unanime apprezzamento: lessati, in umido, in tecia con l’aggiunta di aromi o più raramente fritti i gamberi hanno arricchito più col gusto che con la sostanza la polenta dei poveri e hanno reso indimenticabili i banchetti sulle sponde del Sile frequentati da impenitenti buongustai. Qualche monello osava mangiarli crudi, appena pescati, suscitando ilarità e disgusto fra gli stessi coetanei che oggi affollano i ristoranti di sushi.
Il gambero, quando era consentito, si catturava pescando con le mani, prosciugando tratti di torrente, dragando i fondali con il rastelòn, lo schiràl o posizionando nasse di vimini al cui interno si collocavano scarti di macellazione per attirare le prede. I gamberi d’acqua dolce attualmente reperibili sul mercato sono di importazione o allevamento, la cosiddetta astacicoltura.
Una curiosità è rappresentata dal minuscolo gamberello fluviale (Palaeomonetes antennarius) che popola alcuni tratti di fiume prossimi alla foce. Denigrato dal Ninni che lo bolla come alimento occasionale per “poveri villici”, il saltarél o saltarello è apprezzato nel mantovano dove arricchisce gustose frittate. Del resto bisogna sapersi accontentare perché, come recita un proverbio trevigiano, “co’ no l’è pì gànbri, le vién bone ànca le zhate” (quando non ci sono più gamberi sono buone anche le zampe).
(Foto: wikipedia).
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