Godega S.Urbano, la storia scritta con le unghie: gli orrori di Mauthausen nella lettera di un reduce vittoriese

Hanno scritto la storia incidendo con le unghie il ferro delle camere a gas di Mauthausen, campo di concentramento della Germania. Con questo agghiacciante particolare termina la lettera, scritta il 18 agosto 1945 da un reduce venticinquenne di Vittorio Veneto, nella quale ricorda i momenti della deportazione sua e di decine di migliaia di altre persone. Pare vergata due mesi dopo la sua liberazione.

La missiva è stata recuperata in un mercatino dell’antiquariato da Tonino Fuser ed è stata letta pubblicamente dalla bibliotecaria Ivana Miatto, per la prima volta, nel corso della prima serata de “Gli incontri di Storia Locale”, programmati dall’amministrazione comunale e dalla biblioteca di Godega. L’appuntamento ha avuto luogo lo scorso 21 novembre, nell’ex oratorio di Sant’Urbano – Pianzano.

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“È la “memoria” di una persona che è stata deportata in un lager nazista, durante la seconda Guerra Mondiale. L’ha scritta due mesi dopo la sua liberazione dal campo di concentramento di Mauthausen. È una lettera – ha sottolineato il sindaco Paola Guzzo – dal contenuto a dir poco crudo e commovente”.

Il testo è riportato integralmente:

Io vi parlo con pacato dolore dei misfatti compiuti dai tedeschi, ai danni di una infinita schiera di lavoratori di tutte le razze e di tutti i paesi: ed ecco il mio racconto, sono stato a Mathausen come internato politico, a causa di un atto di sabotaggio compiuto con una decina di Italiani nelle officine Kassel. Ho fatto 770 chilometri a piedi e vengo da quel campo di dolore sede di ben 40.000 internati, i tedeschi mi avevano dato da intendere che mi spedivano in quel campo per lavoro, ed invece mi inviarono meditatamente a la morte alla quale per dono divino sono riuscito a sfuggire. La prima conoscenza con il calvario a me riservato la feci nei così detti blocchi di quarantena e compresi subito la crudeltà di vita a cui andavo incontro. Appena giunto venni immatricolato, quindi spogliato di tutto meno della cinta per i calzoni… mi trovai di colpo coperto di stracci e scalzo, della mia roba per quanto misera se ne impossessò un tedesco. Poi incominciai una “svirilizzazione”. Vengo irrorato d’acqua con gli abiti addosso e messo al gelo di una indimenticabile notte di gennaio, fuori faceva 30 gradi sotto zero. Questo è il preludio del mio ingresso a Mathausen, ed ecco la triste vita, per una settimana di seguito non ebbi riposo, una diabolica astuzia era praticata dai tedeschi per impedirmi di dormire; eravamo collocati uno addosso all’altra su un fianco a spina di pesce, nello spazio in cui avrebbero potuto stare 50 persone ne risultavano duecento … e lavoro… lavoro… lavoro… lavoro caratterizzava la nostra giornata. Partivamo ancora prima del sorgere del sole in 500 a la volta, sfiniti, incapaci di camminare verso la zona più bombardata della Germania, quella industriale, e giorno per giorno, chi non moriva di morte naturale, od era incapace di proseguire lungo le interminabili tappe, veniva colpito da armi da fuoco. A Mathausen nei fili spinati del campo di concentramento vidi e soffrii della morte di centinaia di migliaia di lavoratori. Ben dieci forni crematori videro inghiottire i corpi semi vivi di migliaia di italiani le cui ceneri erano disperse a mo’ di concime sui campi circovicini. Il materiale per la cremazione era dato da noi, da quelli cioè che non erano più in grado di rendere nel lavoro forzato che durava dalle 12 alle 14 ore, con qualsiasi stagione… al sol leone e al gelo. Le dissenterie, lo scorbuto e altre infinite malattie infettive decimavano i compagni di sciagura per i quali non esistevano cure, ne medicamenti. Da qui l’altissima percentuale di morti e la materia prima per i forni. Terrori dei deportati: gli altri morivano per incidenti causati dalla stanchezza, dall’intontimento e perché gli aguzzini ci toglievano di mezzo con un colpo di pistola alla nuca, con una martellata a le tempie, oppure con una stretta delle mani a la gola. Altri disgraziati erano destinati a la camera a gas e le tradotte azzurre, i condannati vi erano spinti dentro per fare il bagno, cento alla volta nello spazio di pochi metri quadrati e invece d’acqua ricevevano gas. Ho potuto riscontrare a liberazione avvenuta da parte degli alleati, sulle lamiere di ferro i segni delle unghie lasciati da chi era dibattuto nell’ora della morte.

“Gli incontri di storia locale” continueranno venerdì 29 novembre, sempre con inizio allo 20.45 e nella medesima location, con “Racconti della Resistenza”, relatore il giornalista e scrittore Antonio Menegon, letture di Enzo Capitanio.

(Fonte: Loris Robassa © Qdpnews.it).
(Fonte foto: Comune di Godega S. Urbano).
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