9 ottobre 1963 ore 22.39: anche se sono trascorsi 61 anni da quella tragica data, la memoria di quei fatti, e soprattutto delle vittime, non potrà mai sbiadire ma è destinata a rimanere sempre viva e indelebile.
Una diga che avrebbe dovuto simboleggiare il progresso delle valli bellunesi, al contrario, è divenuta suo malgrado il ricordo di una tragica serata.
Proprio la sera del 9 ottobre 1963 una frana cadde dal Monte Toc, nelle acque della diga del Vajont. Da lì si generò un’onda spaventosa, alta 250 metri, che oltrepassò la diga stessa, inondando e distruggendo gli abitati del fondovalle veneto, tra cui Longarone, zona che venne letteralmente cancellata.
Ben 1918 persone persero la vita quella sera, di cui 487 furono bimbi e ragazzi adolescenti.
Una tragedia che, oltre a provocare lo strazio nei parenti dei defunti, creò una profonda disperazione collettiva, per un fatto che prima non era mai lì accaduto.
In realtà questo tragico epilogo era stato annunciato, ad esempio dalla penna della coraggiosa giornalista dell’Unità Tina Merlin, ma la sua voce non venne mai ascoltata.
Un doloroso ricordo che l’anno scorso è giunto al suo 60esimo anniversario, che ha visto l’organizzazione di una cerimonia commemorativa, alla presenza delle autorità, del presidente della Regione Veneto Luca Zaia e del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Senza contare le iniziative editoriali, come il volume che racconta la storia delle vittime di Caerano di San Marco decedute nella tragedia del Vajont: furono in tutto 31, tra cui nove dipendenti della Filatura del Piave, nella succursale di Longarone, e i loro familiari.
Ma anche altri Comuni del nostro territorio locale, oltre a Caerano, hanno pianto le proprie vittime, ovvero defunti originari delle zone di Asolo, Cappella Maggiore, Codognè, Colle Umberto, Conegliano, Cordignano, Cornuda, Follina, Fregona, Maser, Miane, Montebelluna, Pederobba, Pieve di Soligo, Possagno, Refrontolo, Revine Lago, San Fior, San Pietro di Feletto, Sarmede, Tarzo, Vittorio Veneto, Volpago del Montello.
Una triste pagina di Storia che si mantiene viva anche tramite il racconto di chi, in un modo o nell’altro, si trovò di fronte a questa tragedia.
Ne è un esempio Giovanni De Stefani, alpino residente a Refrontolo e all’epoca alla caserma Fantuzzi di Belluno per il servizio militare, che fu tra i primi soccorritori ad arrivare sul posto: “Ci trovammo di fronte a un disastro”, sono state le parole che ha usato nel suo racconto.
Assieme ai suoi compagni ebbe il compito di lavorare per trovare i sopravvissuti: indelebile nella sua mente il ricordo del momento in cui, sotto alle macerie, venne estratto un bimbo di 11 anni, ancora vivo. Come non ha scordato i due commilitoni, in caserma con lui, che persero la vita perché di guardia quella sera a un ponte sul Piave a Longarone: furono Florindo Pretto da Vicenza e Giovanni Oriani da Ascoli Piceno.
Senza dimenticare la vicenda della signora Giulia che a Bigolino ritrovò sul greto del Piave il corpicino di Renza De Prà, di 10 anni, vittima del Vajont: la signora ne ricompose il corpo e la preparò per il funerale.
Alcuni parenti, che avevano perso la speranza di ritrovare la bambina, lessero sul giornale la notizia del suo ritrovamento e del funerale celebrato a Valdobbiadene: tutto ciò fu merito proprio della signora Giulia.
Senza dimenticare poi le parole di Arnaldo Olivier sopravvissuto alla tragedia: all’epoca 17enne, quella sera si trovava al bar per guardare la finale di Coppa dei Campioni, tra il Real Madrid e i Glasgow Rangers.
Indelebili i momenti che lui visse: qualcosa gli disse che doveva fare ritorno a casa, nella frazione di Codissago, anche se la partita non si era ancora conclusa.
Rientrato a casa, sentì un boato fortissimo, poi arrivò la violenza dell’acqua, che lo spinse via: riuscì a salvarsi, assieme al padre e alla madre.
Per 35 anni non parlò con nessuno di quanto era avvenuto, come accadde ad altri, ma nel 1993, l’orazione civile a teatro di Marco Paolini (“Vajont 9 ottobre ’63”) riuscì a cambiare le cose.
Oggi, il 9 ottobre di ogni anno induce a fermarsi per un attimo, nella frenesia quotidiana, per riflettere su quanto avvenuto, sulla fragilità della vita e sulle conseguenze irreversibili che l’operato dell’uomo può provocare. E, soprattutto, per non dimenticare.
(Autore: Arianna Ceschin)
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